Le imprese di Danilo, in sella a qualsiasi moto. Con un albero di Natale nel destino, a quattro anni nel 1994 scarta un pacco regalo con dentro una minimoto. A distanza di trent’anni è diventato l’unico pilota della storia ad aver vinto in MotoGP, nel MotoAmerica, nella Dakar e in Superbike.

C’entra pure un camion come presagio. Papà Danilo senior da camionista di merci diventa nel 1991 l’autista del camion del team di Loris Capirossi. E proprio a bordo di un camion Danilo Petrucci si appresta ad affrontare la Dakar che parte il 3 gennaio 2025 da Bisha, Arabia Saudita. Le mirabolanti avventure del trentaquattrenne di Terni. Sognatore, umile, gran lavoratore, solare e riflessivo. Nel 2024 per la prima volta ha avuto davvero paura. Durante un allenamento di motocross a Cingoli (Macerata) lo scorso 11 aprile la sua moto decolla, schiantandosi da un’altezza di 15 metri.

«Per un istante ho visto la morte in faccia, sentivo intorno il silenzio, ero terrorizzato, è come cadere dal quarto piano. Sono riuscito a fare la scelta più lucida, restare in sella alla moto per attutire il colpo e non compromettere gli arti inferiori. La caduta è stata così violenta che ho perso conoscenza per una decina di minuti». 

Trauma cranico e toracico, rottura della clavicola e della scapola destra. E la pluriframmentazione della mandibola. Diciamo la verità, le è andata di lusso

Sono grato ai professori dell’ospedale Torrette di Ancona che mi hanno operato d’urgenza. Per alcune settimane mi sono alimentato con liquidi, non potevo masticare. I dolori alla spalla non mi facevano respirare. Vivevo uno stato emotivo contrastante. Mi sentivo euforico come non mai, perché ero vivo, ancora sulle mie gambe. Allo stesso tempo mi sentivo in colpa. Mi ripetevo: Danilo, la tua passione ti ha quasi ucciso. Guarda questi pazienti in ospedale che stanno combattendo malattie che non si sono scelti, per colpa del destino loro hanno bisogno di assistenza medica, tu invece i problemi te li vai a cercare, ma ti rendi conto di quanto sei egoista?

Per voi piloti il pericolo fa parte del mestiere. Ci raccontate sempre che rifuggite il pensiero degli incidenti mortali altrimenti non potreste più gareggiare.

La passione è la molla che mi ha sempre fatto alzare con il sorriso ogni mattina. È un amore e come tale implica anche sofferenza e sopportazione. Non è tanto la paura di morire, è piuttosto quella di far soffrire le persone che amo. A quasi 35 anni inizio a farmi domande che prima non mi ponevo.

A distanza di due mesi, a giugno, è tornato in pista nel campionato WSBK con il suo team Barni Spark Racing. Poi il 21 settembre a Cremona l’apoteosi con la sua prima vittoria in Superbike. Anzi, le vittorie in quel week end sono state tre: Race 1, Superpole e Race 2. Un altro tassello storico nel mosaico della sua carriera.

Vincere anche in Superbike era un obiettivo, ma forse più un sogno dopo quello che mi era capitato. Essere l’unico nella storia ad aver vinto dappertutto è un orgoglio, ovvio, ma io sono lo stesso di sempre, non amo molto i riflettori, preferisco la tranquillità.

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È il motivo per cui continua ad abitare a Terni?

Mi ero trasferito per un anno a Forlì, ho vissuto per un periodo anche a Pesaro, ma durante il lockdown sono tornato a Terni. Sono sempre in viaggio, in ogni parte del mondo, quando torno a casa mia sono in pace, amo la mia vita semplice.

Semplicità e sincerità non le fanno difetto. Come la bontà d’animo. In qualsiasi paddock non si trova nessuno che non le voglia bene. Amatissimo dai tifosi che le riconoscono la fatica di una carriera costruita mattoncino dopo mattoncino.

Per molto tempo sono stato visto come un essere misterioso, soprattutto in MotoGp perché la mia gavetta è stata anomala. Non ho mai gareggiato in Moto3 e Moto2. Ho iniziato con i trofei monomarca (Superstock 600 e 1000), il mio stile di guida deriva dalle moto di grossa cilindrata.

Già, il suo stile era considerato poco ortodosso per il motomondiale. Si ripeteva spesso: Petrucci guida a gomiti larghi, alza la gamba in staccata, distrugge la gomma posteriore. Ma grazie alla sua tenacia nel 2015 ha l’occasione di gareggiare con il team Pramac, scuderia satellite della Ducati.

Il primo anno mi hanno detto: non ti diamo lo stipendio. Io ho risposto: va bene, vengo gratis. A metà stagione salgo sul podio nel Gran Premio di Gran Bretagna. Quel secondo posto a Silverstone, alle spalle di Valentino Rossi e davanti ad Andrea Dovizioso, ha cambiato la percezione generale. Per altro, era da sette anni che la Pramac non saliva su un podio del motomondiale. Ho chiuso quella prima stagione al decimo posto in classifica.

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Senza essere pagato?

No no, poi sono stato pagato. Mi è stato riconosciuto un premio di fine stagione. Paolo Campinoti (CEO di Pramac Racing Team) si è sempre rivelato un gran signore. A lui e all’allora team manager Francesco Guidotti sarò sempre riconoscente.

Nel 2019 l’approdo nel team ufficiale della Ducati con Andrea Dovizioso come prima guida. Arriva la prima vittoria in top classe, al Mugello. Con il bis nel 2020 in Francia a Le Mans.

Vincere il Gran Premio d’Italia resta uno dei ricordi più magici, quell’ultimo giro di sorpassi con Marc Marquez e Dovizioso. Il delirio dei tifosi mi ha così frastornato che solo dopo alcuni giorni ho realizzato tutto.

Nel 2021 l’ultima stagione in MotoGP in sella alla KTM, con tante difficoltà, e soprattutto la decisione di smettere. Quasi una liberazione, dopo 171 Gran Premi non ne poteva più?

Mi sono detto: il mio sogno era vincere il titolo mondiale, non ce l’ho fatta ma alla MotoGP ho dato tutto. Sono cambiate moto, gomme, regole, è ora di dire basta. Dopo più di 10 anni ero sfibrato, esausto. La gente non si rende conto della pressione enorme a cui sono sottoposti i piloti del motomondiale. Mi era anche venuto il dubbio: Danilo, ma tu ami sempre le moto? È astata la Dakar a darmi la risposta, una gara massacrante che ti mette a nudo

Il 6 gennaio 2022 diventa il primo pilota MotoGP della storia a vincere una tappa della Dakar.

È stata l’esperienza agonistica più traumatica, la mia prima volta in mezzo al deserto, a combattere con la navigazione, con le tempeste di vento. Avevo preso pure il Covid prima della partenza, quindi ero isolato dal gruppo. Il giorno prima ero caduto su un dosso, mi si era aperta la busta di plastica con i documenti e il telefonino, volati via. In quella quinta tappa dopo pochi chilometri mi ero capottato per evitare un cammello. All’arrivo avevo la speranza ma nessuna certezza, c’era Toby Price in vantaggio ma poi lui al traguardo ha ricevuto una penalità. Ho scoperto di aver vinto mentre ero in ambasciata a Riyad, a recuperare i documenti persi. Tornando al bivacco, con le lacrime agli occhi, ripensavo a quando obbligavo mamma Neviana a fermarsi in edicola per comprarmi la rivista con le videocassette della Dakar: guarda la vita dove mi ha portato, a vincere in Dakar.

A inizio gennaio ci torna. La sua seconda Dakar sarà molto diversa, a bordo di un camion. Una scelta sentimentale ripensando al camion di suo padre?

Con papà facevamo tanti viaggi a bordo del suo camion, a volte senza spiccicare parola. Siamo fatti così, due orsi quando dobbiamo esternare i nostri sentimenti, preferiamo dimostrarci amore con i fatti. Le racconto un particolare, dopo il brutto incidente dello scorso aprile leggo su internet le sue parole: «Mio figlio ne ha prese tante, è come Rocky, ma non si è mai arreso». A me di persona non ha mai detto nulla

Il camion dell’equipaggio Italtrans e Prometeon lo guiderà lei?

Il pilota è Claudio Bellina che è alla sua 17esima Dakar. C’è Marco Arnoletti nel ruolo di navigatore. Io guiderò nei trasferimenti, avrò il compito di controllare le gomme. Farò apprendistato, con molta umiltà. Mettiamola così, dal finestrino avrò modo di ammirare il panorama molto di più rispetto a quando ho corso la Dakar due anni fa in moto

Natale a Terni, il regalo sotto l’albero?

La serenità. Sembra banale ma non lo è. La serenità di sapere che sono a posto, che tutto andrà bene. 

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