Torpignattara e Centocelle mantengono un’anima tradizionale influenzata dalle varie culture internazionali che negli anni le hanno scelte. La multietnicità è ben visibile nei menù dei suoi ristoranti, che prima ancora di dare da mangiare sono luoghi di scambio culturale
Roma est è una finestra aperta sul mondo. «Una Shanghai di orticelli, strade, reti metalliche, villaggetti di tuguri, cantieri, gruppi di palazzoni, marane» la definiva Pier Paolo Pasolini. Da allora, il Municipio V è cambiato, o meglio si è lasciato trasformare da chi lo ha scelto come porto di approdo. A farlo negli ultimi anni sono stati per lo più asiatici, africani, latino americani che, numeri alla mano, hanno eguagliato gli autoctoni. Come gran parte di periferie urbane, quest’area della capitale ha accolto nonostante i suoi limiti, anch’essi modificatesi nel tempo.
Torpignattara ne è l’espressione più avanzata. «Siamo ancora un po’ troppo giovani per parlare dei cambiamenti di quartiere, ma ci viviamo e lavoriamo da ormai sette anni e vediamo le stesse dinamiche che osserviamo nelle grandi metropoli: le peggiori conseguenze della gentrificazione, l’innalzamento degli affitti e la sostituzione demografica».
A dirlo sono Claudio e Xerip, titolari del Bazar Taverna Curdo Meticcia aperto lungo la via Casilina che squarcia il quartiere. È un ristorante, ma anche un bazar oltre che una sala da tè. «Torpigna – soprannome reso celebre da Carlo Vanzina in Vacanze di Natale ‘83, ndr - sembra però resistere a questa inesorabile deriva. Forse qui la rotta si sta invertendo». Nel senso che, contrariamente alle dicerie che tutt’oggi persistono, Torpignattara integra. E quindi attrae. In generale, l’intero quadrante di Roma est gode di un consenso forse mai veramente conosciuto, complice anche l’offerta culinaria.
Piatto misto
Claudio è un birraio romano di Tormarancia e Xerip arriva dal Kurdistan. Sbarca e si ferma a Eboli, dove guadagna l’appellativo di curdo-napoletano, prima di arrivare a Roma. Ma relegare in un angolo il passato è pressoché impossibile. Anzi, a riproporglielo è proprio Torpignattara. Pian piano, insieme a Claudio si sono accorti di quanto in comune avessero le loro culture. Pertanto, perché non unirle? Il risultato, anche grazie alla collaborazione con alcuni chef come Emilio Perucci, sono i samosa won ton di coda alla vaccinara o con coratella, i tandoori a scottadito, la guancia al curry, i borek con carciofi alla romana, la ricotta e visciole kataifi. Uno spunto dal medio oriente e altrettanto dalla nostra cucina, romana e napoletana su tutte. Ricette occasionali, ma che li identificano.
«La nostra offerta non vuole includere né integrare, è di suo contaminata e miscelata» proseguono. «Ne deriva una posizione non neutrale, ma schierata nettamente a favore di ciò che ci rende simili nelle nostre bellissime, colorate, saporite diversità: l’umanità». A fungere da collante, il cibo. «È una rappresentazione eccezionale di questa visione di quartiere. Come in un tour, muove le persone alla curiosità, guida in percorsi spericolati e ne elabora di alternativi. Racconta l’origine e sogna il futuro, è sorprendente e appagante».
Alla base di questa filosofia c’è il progetto Curd Curd Guagliò, omonimo della loro birra che ben spiega la natura di questo progetto in movimento. «Pilsner con scorze di limone in aroma, frutto delle conoscenze e pratiche brassicole mitteleuropee, affonda le radici nella storia che pone le prime testimonianze di produzione birraia proprio in Mesopotamia per mano dei sumeri. Anzi, delle sumere» si correggono.
«La birra, così come molte delle ricette della Taverna, non rappresenta una fusione ma più spesso un accostamento, un dialogo, una reinterpretazione. È il caso della genovese curdo napoletana, fedele alla linea partenopea eppure con un ragù grossolano di pecora. Oppure del panzerotto pugliese, che si affaccia dritto dritto verso il Kurdistan. O anche del supplì con la sua forma romana e il contenuto curdo».
Ridurre la Taverna Curdo Meticcia a solo un laboratorio di idee culinarie è limitativo. «Siamo interessati a ciò che accade negli angoli più ribollenti di questo mondo, da cui cerchiamo di portare un po’ delle storie anche nel nostro quartiere». Storie diverse, ma allo stesso tempo collettive. «Lo abbiamo visto con la pandemia, lo subiamo ogni giorno con l’inquinamento e lo sperimentiamo ovunque con le guerre e la repressione: ciò che accade altrove ha una diretta conseguenza su ciò che accade qui, e viceversa. Avere un approccio territoriale non vuol dire fregarsene di quello che succede oltre l’Arco di Travertino, ma è avere cura del proprio spazio con la massima responsabilità. Perché Torpignattara è in perfetta continuità con la Città vecchia di al Quds o con il mercato di Camden Town o con gli infiniti altri luoghi del pianeta».
Per portarle all’attenzione di tutti, «abbiamo organizzato tantissime iniziative, presentazioni ed eventi culturali che fanno parte del vissuto al quale apparteniamo: ecologia, autodeterminazione, transfemminismo. Motivo per cui siamo certamente un locale che sfama e ci sfama, ma anche un punto di incontro e di scambio». In due parole: «Taverna internazionalista».
Un mare allargato
Meno di un chilometro separa via dei Castani da via delle Palme. L’asse commerciale di Centocelle ruota sempre attorno a quello di un tempo, con le tipiche aziende a conduzione familiare. Ad attrarre i piccoli imprenditori sono anche gli affitti commerciali più bassi rispetto ad altre zone, una spinta per costruire la propria attività. Come quella di Daniele e Paolo, due fratelli che hanno visto il cambiamento sotto i loro occhi.
«La rivoluzione a Roma est non la noti. Vedi piuttosto assestamenti, un adattamento continuo». Un po’ come i loro piatti presenti nel menù di Menabò, in perenne trasformazione. «Ci sarebbe piaciuto aprire un posto dove cucinare e servire vino, e ci siamo riusciti. In estrema sintesi, facciamo quello che ci piace fare». Spesso però dare una definizione di cosa fosse Menabò è risultato complesso.
«Quello che offriamo non è mai svincolato dalla nostra identità, che si è andata a definire attraverso le parole degli altri e non solo ciò che volevamo esprimere. Alcune volte ci hanno permesso di notare cose che ci erano sfuggite, altre abbiamo individuato un ciò che stavamo sviluppando semplicemente parlando». Anche quando si raccontano, non esce fuori una descrizione precisa.
«Ci sono alcune caratteristiche che appartengono al bistrot francese, come il vino e il menù ridotto. Altre che rimandano all’osteria romana, come le tecniche di cottura assorbite lavorando in città o in un certo tipo di locali del centro Italia. Cerchiamo di avere delle idee che poi ritornano nel tempo. La nostra visione è frutto di un’idea teorica ma molto spesso legata alle risorse. Non siamo un laboratorio di grandi chef, che possono concentrarsi su un obiettivo e basta. Ci piace vivere l’osteria in modo un po’ differente».
Non soltanto tramite incontri enogastronomici. La loro messa a fuoco si è spostata soffermandosi sul concetto di ristorazione, vissuto con un senso di ospitalità e inclusione sociale, e riappropriandosi dell’identità Medi-terranea, massima espressione di come le differenti culture finiscano per avvicinarsi.
«Siamo entrati in sintonia con la zona e con quello che ci accade intorno. Siamo un quartiere popolare, dove la stragrande maggioranza non ha origini romane ma viene da ogni parte d’Italia. Per non parlare degli immigrati di prima e seconda generazione, che a Centocelle hanno trovato la possibilità di avere una casa e poi mandare i figli a scuola. Ci siamo quindi domandati cosa significhi una cucina mediterranea». E si sono dati una risposta: «Una serie di scambi che le popolazioni hanno da sempre a cui si è aggiunto un valore contemporaneo. Il senso di mescolanza oggi si arricchisce di altri movimenti. Se solo pensiamo che la stragrande maggioranza della comunità bengalese a Roma lavora nei ristoranti, anche se il Bangladesh non rientra nel Mediterraneo adesso lo abita».
Dietro il loro lavoro c’è dunque una ricostruzione storica e un’analisi del presente, prendendo spunto dalle differenti culture gastronomiche per poi unirle. Che sia un piatto della tradizione o meno non ha rilievo. L’importante è che ci sia un qualcosa che racconti la loro identità.
«Abbiamo trasformato il ripieno tradizionale del burek turco, diffuso nell’area balcanica ma storicamente legato a Marche e Abruzzo, riempiendolo con spinaci, pecora e una salsa di pecorino. Il sarmale, l’involtino di verza tipico della cucina romena, lo abbiamo fatto con il baccalà per ricordare l’esodo degli ebrei sefarditi a Salonicco. Così come il primo maggio abbiamo inserito il risotto con le fave, un alimento che gli ebrei tripolini hanno riportato a Roma dopo l’espulsione di Gheddafi».
Come un tempo, hanno fatto di necessità virtù. «Vivendoci, per noi raccogliere le varie culture nei piatti è un’opportunità. Quartieri come il nostro hanno sempre avuto la loro vivacità, sono come quelle case di cui l’edera si impossessa. È sempre accaduto che le persone si appropriassero degli spazi. Hanno cercato di trovare una soluzione ai problemi con il materiale umano, le energie e le idee. E in questo Centocelle non è cambiata».
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