Ha oltre 500 mila edifici in aree a pericolosità idraulica, nonostante sia la zona a più alto rischio idrogeologico, e solo nel 2022 ha consumato 635 ettari, l’equivalente di 27 campi da calcio al giorno. Secondo molti la legge regionale «fa acqua da tutte le parti», mentre il parlamento non riesce ancora ad approvare una normativa nazionale
È almeno la terza volta in un anno e mezzo che l’Emilia-Romagna sprofonda sott’acqua. Mentre ancora non è finita la conta dei danni delle due alluvioni del maggio 2023, e mentre di risarcimenti del governo se ne sono visti pochi, la regione si ritrova a fare i conti con un’emergenza che è ormai diventata una tragica abitudine.
Lo scorso anno si contavano 17 morti. Ora, nella seconda alluvione in meno di due mesi, a perdere la vita è stato un ragazzo di 20 anni, Simone Farinelli, travolto da acqua e fango a Pianoro, in provincia di Bologna. E l’emergenza non è finita lì, perché nei giorni successivi è stata diramata l’ennesima allerta meteo.
Ma come mai negli ultimi anni l’Emilia-Romagna è sempre la più colpita da alluvioni e inondazioni? Colpa di eventi metereologici sempre più estremi e a tratti imprevedibili, ma anche di decenni di cementificazione sregolata che hanno fatto della regione una delle zone a più alto tasso di consumo di suolo in Italia.
L’impatto del consumo di suolo
«Il rischio idrogeologico in Italia è già elevato. Il nostro territorio poi è particolarmente sensibile a questo genere di eventi – spiega Davide Ferraresi, presidente di Legambiente Emilia-Romagna –. Con il cambiamento climatico ci troviamo di fronte a una nuova normalità: fenomeni che già esistevano diventano ora più intensi e più frequenti».
Tra il 19 e il 20 ottobre scorso in alcune zone dell’Emilia-Romagna sono caduti oltre 175 millimetri di pioggia. Durante la scorsa alluvione, quella di settembre, in 48 ore ci sono stati picchi di precipitazioni fino a 350 mm che, tradotto, equivale all’acqua che normalmente ci si aspetta in due o tre mesi autunnali. Eventi estremi che negli ultimi anni stanno diventando una normalità con cui si dovrà iniziare a fare i conti. Ma questo, secondo gli esperti, è solo una (pur grande) parte del problema.
Non solo bombe d’acqua, ma anche di cemento. «Il consumo di suolo ha certamente un ruolo – spiega Francesco Zullo, professore di Tecnica e pianificazione urbanistica all’Università dell’Aquila –. Un terreno impermeabile ha un deflusso idrico molto inferiore rispetto a uno naturale». Tradotto: un suolo cementificato ha una capacità molto inferiore di assorbire acqua, soprattutto quando – come nei casi che hanno coinvolto l’Emilia-Romagna (ma non solo) negli ultimi mesi – la quantità di pioggia che cade in poco tempo equivale a quella che normalmente verrebbe giù in diversi mesi.
I dati Ispra
Ispra pubblica annualmente un report sul tema (l’ultimo è del 2023) e in questa classifica l’Emilia-Romagna non è tra le regioni più virtuose. Nel 2022, rispetto all’anno precedente, è stata la quarta in Italia per consumo di suolo netto dopo Lombardia, Veneto e Campania, sopra la media degli ultimi sei anni dell’8 per cento. Che in termini assoluti significa 635 ettari consumati in un anno, come Central Park, e 19,4 ettari al giorno, l’equivalente di circa 27 campi da calcio. Dati che si traducono in un 8,9 per cento di superficie impermeabile, quando la media nazionale è del 7,1. Dal 2006 al 2022 sono stati cementificati 11mila ettari, 110 chilometri quadrati.
«Il tema del consumo del suolo è rilevante ma lo amplierei – sottolinea Ferraresi –. I dati comunque parlano chiaro e le trasformazioni che hanno tolto terreno libero hanno un impatto nella gestione delle acque piovane. Poi c’è un tema più ampio, quello di dove va a finire quest’acqua. Sui sistemi fluviali si è lavorato molto in passato per restringere gli spazi che potevano servire per altre attività. Ora stiamo vedendo i risultati». In ogni caso, il combinato disposto di caratteristiche morfologiche dell’Emilia-Romagna e decenni di urbanizzazione spesso sregolata – come in molte altre parti d’Italia – restituiscono un quadro preoccupante.
Alcuni dati più specifici spiegano meglio di molte parole la fragilità di questo territorio: il 45 per cento della regione è una zona a probabilità di alluvione media, ed è in testa sia per numero totale di edifici in aree a pericolosità idraulica (oltre 500mila) che come percentuale (più del 60 per cento si trovano qui).
Cosa non va nella legge regionale
Eppure, l’Emilia-Romagna è una delle prime regioni a essersi dotata nel 2017 una legge sulla tutela e l’uso del suolo basata su due pilastri: saldo zero entro il 2050 e un limite di consumo, da gennaio 2018 a quella data, pari al 3 per cento del territorio già urbanizzato. Ma per diversi motivi non sta funzionando come dovrebbe.
«Questa e altre leggi regionali sono piene di deroghe – afferma Zullo –. È un problema perché, oltre a indebolire i buoni propositi della normativa, il vero consumo di suolo non si riesce in questo modo a computare in maniera ufficiale e ci si finisce per basare su dati distorti». Per esempio, gli «interventi di interesse pubblico» sono esclusi dal conteggio e sono quindi permessi e sottoposti a pochi paletti. Qui sono stati considerati in questi modo i poli della logistica: non è un caso che – anche per la posizione strategica dell’Emilia-Romagna – la regione è quella in cui per questo settore negli ultimi anni è stato consumato più suolo in Italia.
Bisogna poi capire cosa è «consumo di suolo», normalmente definito come la differenza tra quanto viene “cementificato” fuori da un determinato perimetro urbanistico (Ptu) e quello che viene cementificato dentro. Nella legge dell’Emilia-Romagna, spiega il professor Zullo, «ci sono delle indicazioni che lasciano un ampio margine di discrezionalità nel tracciare questo perimetro, anche per della discontinuità territoriale che contraddistingue i nostri centri urbani. In questo modo all’interno del Ptu il valore del suolo consumato nei documenti ufficiali è spesso pari a zero, anche se nei fatti non è così». Il caso della città metropolitana di Bologna è emblematico: «L’Ispra rileva come dal 2017 al 2022 sono stati consumati 600 ettari, mentre il monitoraggio secondo i dettami della normativa vigente testimonia qualcosa di incredibile: questo consumo è zero», sottolinea Zullo.
E c’è poi un problema di tempi. «Dilatatissimi – come li definisce Ferraresi di Legambiente –. È stato lasciato un sacco di spazio ai comuni per realizzare urbanizzazioni previste in precedenza: ci sono state proroghe lunghissime del periodo transitorio in cui gli enti locali hanno potuto fare come se questo obiettivo del consumo zero non esistesse. Così, e anche per colpa delle innumerevoli deroghe, le buone intenzioni della legge vengono vanificate».
Anche qui i numeri danno bene la misura della questione: al 31 dicembre 2023 (data di scadenza dopo un’ulteriore proroga) l’82 per cento dei comuni non aveva ancora approvato i Piani urbanistici generali (Pug) previsti dalla legge regionale del 2017 (secondo gli ultimi dati disponibili ora dovrebbero essere solo 39 su 330).
Manca una legge nazionale
«Bisogna avere il coraggio di una legge che ponga un freno a questa prassi deplorevole perché il cemento diventa il miglior complice dell’acqua che poi diventa torrente, poi diventa fiume, e poi diventa piena con tutto quello che è sotto gli occhi di tutti». Parola di Nello Musumeci, ministro per la Protezione civile.
Peccato che solo negli ultimissimi anni si sono alternate almeno quattro proposte di legge, tutte finite nel nulla. In questa legislatura ne sono stati presentate già 11, di cui tre bocciate e mai discusse e quattro non ancora approdate neanche in commissione Ambiente. «Gli interessi in gioco sono pazzeschi – sottolinea Zullo –. C’è bisogno di una legge quadro nazionale perché così avremmo 20 normative, una per ogni regione, con 20 definizioni diverse, 20 interventi diversi e migliaia di deroghe diverse. Questo porta anche a una corsa al ribasso». Anche perché, continua il professore dell’Università dell’Aquila, l’Italia ha anticipato al 2030 l’obiettivo consumo zero, che l’Unione europea fissa più realisticamente al 2050.
Il tema generale, anche per Ferraresi, è la pianificazione urbanistica – alla luce degli impatti futuri del cambiamento climatico – e la prevenzione. I numeri li ha dati qualche giorno fa il presidente nazionale di Legambiente, Stefano Ciafani: «Per ogni miliardo di euro speso se ne risparmiano quattro per interventi post-alluvione».
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