Christine Mboma questa sera guarderà in televisione la finale femminile degli 800 metri piani del Mondiale di Budapest. Un fermo forzato dalla decisione della World Athletics, la quale lo scorso marzo ha stabilito che tutte le atlete con Dsd – disordine dello sviluppo sessuale – non possono gareggiare se non riducono attraverso specifiche cure i livelli di testosterone, da un minimo di sei a un massimo di 24 mesi prima delle gare, secondo la distanza per la quale concorrono.

Christine ha cercato di ammazzare il tempo passando dalla promozione della propria linea di abbigliamento al dare una mano nel supermercato della nonna, ma la delusione per la ventenne, velocista, un tempo mezzofondista e lunghista, è evidente.

«Deve prendere una pillola di estrogeni ogni giorno», racconta il suo allenatore Henk Botha, «ma non sappiamo se manterrà il suo testosterone entro il limite desiderato, perché non ci sono dati su cui basarsi». La vera sfida è trovare il giusto dosaggio, considerando che il ciclo mestruale aumenta la quantità. Se cade nel periodo delle gare, diventa tutto più difficile.

Gli altri casi

Dalla ceca Jarmila Kratochvílová passando per la sudafricana Caster Semenya, gli 800 metri piani femminili sono la gara più accidentata per l’atletica mondiale. Sebastian Coe, il presidente della federazione mondiale d’atletica, ha fatto sapere che la decisione è stata presa per «proteggere l’integrità dello sport femminile. Lo prendiamo molto sul serio, se ciò significa che dovremo apportare modifiche ai protocolli lo faremo». Come poi è accaduto. Sia Christine Mboma sia Beatrice Masilingi, entrambe namibiane, avevano accettato di scendere dagli 800 ai 200 pur di essere ai Giochi di Tokyo. Due anni fa, lo sprint era escluso dal bando. Mboma vinse l’argento, si aprì un dibattito che usciva dal recinto degli 800.

Stiamo parlando comunque di atlete di sesso biologico femminile, con una produzione elevata di testosterone naturale. Per gareggiare, sono ora costrette a seguire una terapia ormonale, senza che ancora ci sia unanimità nel mondo scientifico sul peso decisivo del testosterone. Le avversarie parlano di vantaggio sleale.

Le polemiche

Il comitato internazionale olimpico ha deciso di non decidere, lasciando l’ammissibilità ai singoli organismi sportivi e aggiungendo che «fino a quando le prove non determinano diversamente, gli atleti non dovrebbero essere considerati come beneficiari di un vantaggio competitivo ingiusto o sproporzionato a causa delle loro variazioni di sesso, aspetto fisico e/o stato transgender», confondendo situazioni diverse, confondendo sesso e genere, biologia e identificazione.

La campionessa olimpica Antonella Bellutti, riflettendo sulle linee guida, ha detto: «Perché si parla di genere? Le categorie a oggi seguono il sesso, concetto biologico e pertanto determinante in termini di vantaggi/svantaggi nel linguaggio della prestazione. Non seguono certamente il genere, concetto culturale ininfluente da questo punto di vista. Oltretutto viene da chiedersi anche attraverso quali indicatori si penserebbe di poter misurare e valutare il genere d’elezione?».

Se Christine Mboma ha scelto la pazienza come arma di difesa, Caster Semenya, 32 anni, oro olimpico sia a Londra sia a Rio, ha scelto le vie legali. Il mese scorso la Corte europea per i diritti dell’uomo ha stabilito che il governo svizzero non ha protetto l’atleta sudafricana dalla discriminazione, quando il tribunale federale ha sospeso l’applicazione del regolamento sulla limitazione del testosterone, annullando un mese dopo la sospensione. Secondo i rappresentanti della comunità lgbtqia+ queste prese di posizione non fanno altro che aumentare la polarizzazione sull’argomento, esponendo i propri membri a coming out forzati, a episodi di intolleranza.

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