Pochissime tutele per la maternità o la malattia, molti contratti in nero e pensioni a 71 anni. L’Italia è un paese che invecchia sempre di più ma che abbandona coloro che si prendono cura delle persone anziane, come i badanti e le badanti, lasciando sulle loro spalle e su quelle delle famiglie il carico economico dell’invecchiamento del paese. Eppure si stima che in Italia, nel 2025, le famiglie avranno bisogno del supporto di circa due milioni e 288mila unità di personale domestico per soddisfare il proprio fabbisogno di assistenza: un milione e 524mila stranieri e 764mila italiani, soprattutto lavoratrici.

Queste sono le stime contenute nel Rapporto 2024 “Family (Net) Work -- Laboratorio su casa, famiglia e lavoro domestico” di Assindatcolf e dal Centro studi e ricerche Idos. Il fabbisogno complessivo di collaboratrici domestiche, inoltre, include non solo le famiglie con lavoratrici e lavoratori già in regola, ma anche i datori di colf e badanti senza contratto e persone che vorrebbero assumere ma che per una serie di motivi, anche economici, non hanno ancora provveduto a farlo.

Numeri e contratti

Secondo Luca Di Sciullo, presidente del Centro studi e ricerche Idos, «il numero crescente di nuclei bisognosi di assistenza domestica va di pari passo con la crisi demografica del paese e il cronico invecchiamento degli autoctoni». Due criticità strutturali, quelle del fabbisogno di cura e della denatalità, «cui gli immigrati potrebbero dare un apporto ancora più apprezzabile se si razionalizzassero le politiche sull’ingresso e la permanenza regolare degli stranieri in Italia».

Emanuela Loretone, responsabile del settore Lavoro domestico della Filcams Cgil nazionale, dice a Domani che «dei due milioni attuali di lavoratrici e lavoratori del settore, dobbiamo considerare che la metà ha un lavoro irregolare: o senza contratto o con contratti cosiddetti “grigi”, ad esempio con ore non dichiarate». La Cgil li ha definiti «invisibili, perché di fatto svolgono un servizio fondamentale per la società, ma all’atto pratico la società quasi mai le riconosce fino in fondo».

I finanziamenti pubblici stanziati dal governo e dagli enti pubblici a sostegno delle famiglie che si sobbarcano il lavoro di cura «quasi mai sono legati alla corretta contrattualizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori e il lavoro irregolare nel settore è molto alto, senza tutele in termini di previdenza sociale, malattia e maternità».

Per Loretone, bisognerebbe avere una legge di riferimento slegata dalle previsioni sporadiche del decreto Flussi. «Quella che c’è ora è una legge che noi contestiamo perché ha un aspetto discriminatorio nel trattare le politiche migratorie: avere una legislazione saltuaria non consente di avere una visione d’insieme del settore». Il governo, fino a oggi, ha trattato la questione soltanto «prevedendo in finanziaria delle norme contro gli evasori fiscali, come se adesso in Italia scoprissimo che l’evasione fiscale è basata sulle badanti».

La testimonianza

La situazione che vivono i collaboratori e le collaboratrici domestiche la racconta la lavoratrice Maria (nome di fantasia), a commento della giornata di sciopero dell’8 marzo, a cui anche il mondo delle lavoratrici domestiche ha aderito: «Questo lavoro ti distrugge non solo fisicamente, ma anche mentalmente: non sei mai apprezzata, anche se lavori notte e giorno, senza un giorno di riposo».

Lavora con una persona anziana con demenza, che purtroppo «non capisce se sia notte o giorno: urla, canta, grida e non dorme. Sono stata con lei tutto il giorno, con uno stipendio di 800 euro al mese, senza tredicesima o ferie, ma ti danno per scontata: ho lavorato cinque anni, ho amato con tutto il mio cuore la signora, davanti a lei ero sempre sorridente e felice, cantavo con lei anche se ero in lutto per i miei parenti, eravamo sempre sole a casa, 24 ore al giorno».

Gli ultimi due anni, con tantissimi sforzi, «sono riuscita ad avere la tredicesima, delle ferie, e mi hanno aumentato un po’ la paga, ma la signora aveva bisogno dell’assistenza di due persone, e invece lavoravo sola 24 ore al giorno, ma il mio contratto era per sole cinque ore al giorno». Ora la signora è mancata: «Cosa devo fare? Chi pensa a me e a tutti coloro che fanno questo lavoro duro? Chi pensa alla nostra sofferenza, stanchezza e mancanza di diritti?».

Welfare cercasi

A Padova il sindacato Adl-Cobas sta portando avanti una campagna a difesa delle collaboratrici domestiche, per i diritti e le tutele che languono e per le disparità di trattamento a confronto con le altre lavoratrici dipendenti.

Maryuri Gonzàlez e Francesca Zanotto raccontano a Domani del lavoro che il loro sindacato ha avviato anche con una rete intersindacale, manifestando davanti all’Inps per denunciare la mancanza di diritti e di tutele come la malattia o la maternità: «Una lavoratrice domestica ha al massimo quindici giorni di malattia all’anno retribuita, e non è pagata dall’Inps, ma è a carico del datore di lavoro. Per lo stato italiano la lavoratrice non ha diritto ad ammalarsi».

Tutta la spesa è a carico del datore di lavoro, che è una famiglia, non un’azienda o una società, a differenza del lavoro dipendente dove, se ci si ammala, una parte della malattia ricade sul datore di lavoro e l’altra è pagata dall’Inps. Invece nel lavoro domestico non è previsto il contributo dello stato, come spiega Zanotto: «Noi pensiamo che quella quota di contributi di cui non si può far carico una famiglia debba essere invece sopperita dallo stato».

Anche per quanto concerne le pensioni la situazione è drammatica: le lavoratrici percepiscono, in media, 350 euro di pensione, e non ci vanno prima dei 71 anni, eppure, come ricorda la sindacalista Gonzàlez, «con il loro lavoro sostituiscono il welfare dello stato».

Per questo il sindacato continua a chiedere che lo Stato integri i contributi per avere una pensione dignitosa, che dia il sostegno alle famiglie che hanno necessità di avere più badanti, che sia garantito il diritto al congedo di maternità, che il lavoro full time sia di 40 ore e non di 54 come ora e, non per ultimo, che la malattia delle lavoratrici venga pagata dall’Inps e non dal datore di lavoro, per tutto il periodo necessario.

Riposo e maternità

Per quanto riguarda il diritto alla maternità indennizzata dall’Inps, le lavoratrici domestiche hanno diritto a percepirla solo a determinate condizioni contributive, mentre qualunque lavoratrice dipendente ha diritto alla maternità pagata dall’Inps anche se il suo contratto di lavoro è appena stato firmato.

Alle lavoratrici domestiche spetta questo diritto solo se hanno maturato 52 settimane di contributi negli ultimi 24 mesi oppure 26 settimane di contributi negli ultimi 12 mesi. Se questo requisito venisse meno, resterebbero a casa per tutto il periodo della maternità, senza alcuno stipendio.

A causa di queste condizioni, secondo i sindacati, si apre il rischio concreto che la lavoratrice, pur di percepire uno stipendio, sia costretta per motivi economici a continuare a lavorare nonostante la gravidanza, mettendo a serio rischio la gravidanza stessa; perché le condizioni ambientali o di lavoro delle assistenti familiari sono ritenute pregiudizievoli per la salute del bambino e della madre.

Solo dopo aver partorito, infine, la lavoratrice domestica potrà chiedere un’indennità allo Stato che si aggira sui 400 euro al mese per un totale di cinque mesi. La lavoratrice domestica, a differenza di tutte le altre lavoratrici dipendenti, non ha diritto al congedo parentale (maternità facoltativa). Zanotto, inoltre, racconta che le lavoratrici, quando si presentano agli sportelli sindacali, «sono stanche e affrante: quando scoprono quale sarà la loro pensione cadono nello sconforto, inoltre in alcuni casi dormono e vivono nei sottoscala degli appartamenti e lavorano più delle 54 ore previste dal contratto di badante convivente». Qui subentra il problema, enorme, del diritto al riposo, troppo spesso non garantito: «Se non ti riposi come fai ad assistere una persona?»

Arriva, poi, il momento in cui la persona che si assiste viene a mancare, e, per la lavoratrice, c’è un doppio lutto: «Il primo è per la persona che per anni si è accudito e a cui ci si è affezionate», spiega Gonzàlez, «l’altro è quello di ritrovarsi, da un giorno all’altro, senza lavoro, senza residenza e senza casa: le lavoratrici si devono appoggiare ad amiche, mentre cercano un altro lavoro, perché sono improvvisamente rimaste senza stipendio e senza un tetto sopra la testa».

Non ci sono tutele, dunque: perdendo la residenza perdono tutto, anche la tessera sanitaria e il medico di base, fino a che non troveranno un nuovo datore di lavoro. Senza alcun sostegno dello Stato, inoltre, che non si prende carico delle lavoratrici che tappano i buchi di un welfare assistenziale che non è garantito, se non da loro: «Se si fermassero loro, anche per un solo giorno», afferma Zanotto, «si bloccherebbe il paese intero».

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