Film, romanzi e manga: in ogni opera che si occupa dell’invecchiamento, ci sono uomini e donne arrendevoli e tristi. La maggior parte di loro è stata convinta dalla retorica che smettere di vivere è patriottico, altruista, generoso, equo
In uno dei momenti più critici della storia moderna del paese, l’antropologo Yanagita Kunio (1875-1962), considerato il padre del folklore giapponese, cercò risposta alla domanda «Cosa è un giapponese?». Lo fece esplorando i racconti popolari, le leggende, la vita sulle montagne, le fiabe. Dimostrò come quel Giappone che, nell’incontro con l’occidente, si stava lanciando con sventata leggerezza e superficiale entusiasmo verso una trasformazione che somigliava tanto più all’autodistruzione, aveva bisogno proprio del folklore, della conoscenza delle tradizioni antiche. Per tenersi saldo, insomma, al futuro del paese serviva il racconto del proprio passato.
I classici
Leggendo il classico della letteratura giapponese Le ballate di Narayama di Fukazawa Shichirō, pubblicato per la prima volta in patria nel 1956, e che ruota attorno all’usanza di portare a morire sulla montagna i genitori anziani così da far fronte alla penuria di risorse e alla fame, mi è tornato alla mente il saggio di Yanagita Kunio dedicato proprio al tema di ubasute 姥捨て (letteralmente «gettare via gli anziani»), scritto in origine nel 1945 per la curiosità delle bambine della quinta e sesta elementare che dovevano trasferirsi in campagna a causa della guerra. Vi erano raggruppate varie versioni della leggenda che evidenziavano, tuttavia, come fosse la pietà filiale il vero tema.
Si trattava di una prova: il bisogno, la carestia avrebbero vinto sulla morale, sulla riconoscenza che i figli dovevano ai genitori? Tra le tante declinazioni della storia, in parte indigene, in parte provenienti da India e Cina, la mia preferita è indubbiamente quella che vede l’anziana madre spezzare dei rami a mano a mano che il figlio sale sulla montagna dove l’abbandonerà alla morte; alla domanda sul perché del gesto, la donna risponde che è per creare indizi affinché il figlio ritrovi facilmente la via del ritorno verso casa.
Il bellissimo racconto di Fukazawa, come scrive a ragione Giorgio Amitrano che lo ha tradotto per la prima volta in lingua italiana per Adelphi, «occupa uno spazio sorprendentemente vasto in rapporto alla brevità del testo», sicché nonostante le poche pagine, la «forza narrativa, la ricchezza dei temi e la gamma di sentimenti che vi sono descritti hanno… il respiro del grande romanzo». È un classico di riferimento della letteratura giapponese, la cui importanza è testimoniata dai numerosi adattamenti e riferimenti più o meno diretti in opere culturali e letterarie successive.
La questione demografica
Il grave problema demografico e sociale che si trova ad affrontare da più di cinquant’anni il Giappone è da tempo al centro di un dibattito politico e culturale, tema di talk-show, documentari, romanzi, fumetti, pellicole cinematografiche. Mi ha sempre animato l'idea per cui il folklore non sia molto distante dalla fantascienza, con l'unica differenza per cui lo sguardo non è rivolto in avanti ma indietro, pur presentando varianti non (ancora) realizzate del reale. Sono entrambi ottimi esercizi di immaginazione.
Così, già nel 1973 Fujiko F. Fujio, il padre di Doraemon e Superkid, firmava un manga one-shot intitolato Pensionamento alimentare (Teinen-taishoku) che raccontava di un prossimo futuro in cui il paese, alle prese con una penuria eccezionale di risorse naturali e scorte alimentari, stabiliva un rigido sistema di razionamento a danno soprattutto degli anziani. Simile per temi ma assai più cupo e apocalittico nelle atmosfere è il fumetto TEMPEST (2018) di Asano Inio, che prospetta una società votata al principio di «Keep Young», la quale se da una parte fornisce straordinari incentivi alla natalità, dall’altra spinge allo smaltimento forzato degli anziani.
Con tratto iperrealistico, si ripercorre l’ideologia anti-anziano che si era inizialmente diffusa su Internet ma che, a mano a mano, aveva contagiato i mass media finché tutti i mezzi di informazione non erano stati coinvolti nel movimento di discriminazione («Il sistema pensionistico era un inganno creato dalle generazioni precedenti al solo scopo di proteggere se stesse!»). Ormai vivere e basta, senza uno scopo utile e concreto alla società, non risulta più accettabile.
La soglia
Anche Plan 75, esordio alla regia di Chie Hayakawa (2022), film che delinea una società in cui per far fronte all’invecchiamento della popolazione e al crollo delle nascite si incitano gli ultra settantacinquenni all’eutanasia di massa, si apre con la notizia di un’ondata di violenze a danno degli anziani e con l’accenno a una sofferenza condivisa da tutte le generazioni.
L’età oltre la quale vivere non è più ammissibile oscilla: se ne Le ballate di Narayama i figli devono portare a morire i genitori sulla montagna al compimento dei 70 anni, nel manga di Fujiko F. Fujio la soglia oltre la quale si smarriscono i diritti sono i 75 anni (rinnovabili solo tramite un’utopica lotteria); in TEMPEST a 85 anni si può accettare l’eutanasia oppure tentare un difficilissimo esame di certificazione (basta un unico errore nel rispondere alle 500 domande previste per perdere il mero diritto a esistere).
La descrizione di un’età
Qualunque sia il periodo storico o la forma artistica, in ogni opera che riguarda il tema dell’invecchiamento della popolazione a fronte di un mondo sempre meno ricco di risorse e con una crisi demografica senza precedenti, gli anziani vengono descritti per lo più come arrendevoli, sconfitti; si sentono inutili, sciocchi e soprattutto molto tristi, motivo per cui la maggior parte di loro sceglie senza protestare la soluzione finale, convinta da una retorica che fa del suicidio assistito o della morte volontaria una pratica «patriottica, altruista nei confronti delle nuove generazioni, generosa ed equa».
In ogni storia, da Le ballate di Narayama ai manga di Fujiko F. Fujio e Asano Inoi, da Plan 75 ad altri film sul filone di La fuga di Logan (1976), i vantaggi razionali alla soppressione degli anziani sono evidenti e si sommano ad agevolazioni invitanti come fine vita indolori, pasti gratuiti, somme in denaro da spendere a piacimento prima del giorno X, sgravi fiscali completi così da consegnare i propri averi interi agli eredi. Da un punto di vista economico, insomma, alla morte si promette di andare incontro con sollievo.
Insegue, tuttavia, ogni narrazione l’interrogativo costante su cosa sia un essere umano, sul senso della dignità di un’esistenza. Basta, infatti, che un figlio ricordi l’amore ricevuto da una madre scalando la montagna di Narayama o che un nipote immagini concretamente lo smaltimento del cadavere dello zio prima di concludere il programma di Plan 75 cui si è iscritto per tristezza, che la regola generale diventi particolare, che si facciano avanti il sentimento e il ragionamento personale, e che quindi l’assurdità mostruosa dell’omicidio si palesi.
Ma allora a cosa servono gli anziani? Il punto è proprio nel verbo servire. Non a caso, una delle versioni tradizionali della fiaba a tema ubasute raccolte da Yanagita Kunio, si concludeva con il ritorno della vecchia madre a casa dopo che, riflettendo ad alta voce, il figlio della donna, accompagnato dal nipote, affermava che la cesta in cui stava trasportando l’anziana andava riportata a casa in quanto avrebbe potuto ancora servire a qualcosa.
Quella frase, in cui il verbo «usare/servire» faceva vincere l’oggetto sulla persona, risvegliava la coscienza dell’uomo che si pentiva infine della propria crudeltà.
La risposta all’interrogativo «A cosa servono i vecchi?» l’ho trovata piuttosto nello scambio che intercorre tra un uomo e un’infermiera, in uno dei romanzi di fantascienza dello scrittore Kilgore Trout (partorito, a sua volta, dall’immaginazione di Kurt Vonnegut). I due si trovano in uno dei Saloni del Suicidio Etico in cui, tramite quattordici modalità indolore, la gente va tranquillamente a morire.
L’uomo, pronto a finire all’altro mondo, «chiedeva a una hostess della morte se sarebbe andato in paradiso, e lei gli rispondeva che ci sarebbe andato di sicuro. Lui le chiedeva se avrebbe visto Dio, e lei diceva: “Certo, tesoro”. E lui diceva: “Lo spero proprio. Voglio chiederGli una cosa che quaggiù non sono mai riuscito a scoprire”. “Cosa?” diceva lei, assicurandolo con le cinghie alla poltrona. “A che diavolo serve la gente?”».
Ecco, la domanda, se posta con vera convinzione, non può essere più «A cosa servono gli anziani», bensì «A cosa serve la gente?» In un’ottica tutta voltata all’utile, nulla serve davvero più a niente.
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