L’ultimo fotogramma che Insalaco consegna al suo memoriale è il ricordo di un incontro in una galleria d’arte del centro di Palermo con il più potente repubblicano della Sicilia, Aristide Gunnella: «Mi conferma che Cassina ha decretato la mia fine». Gunnella ha negato di aver mai pronunciato quella frase.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.
Di quei giorni convulsi c’è una cronaca scritta dallo stesso Insalaco: il «memoriale», come venne chiamato, che fu trovato dopo il delitto nel piccolo ufficio che l’ex sindaco aveva ricavato in un locale in via Papireto, un mezzanino che si affacciava sul mercatino delle pulci di Palermo. Chiuso in una busta con la dicitura «Riservato.
Da aprire solo in casi eccezzionali (sic)», il documento sembra risalire al 1985, quando l’ex sindaco fu arrestato per la vicenda dell’Istituto Sordomuti. E dovette certo essere scritto con angoscia se, nel compilare la busta, Insalaco incappò in quell’errore da matita blu, raddoppiando le z di «eccezionali» con uno svarione che, nella lapidazione post mortem, attizzò malevoli ironie.
Nel memoriale c’è il ritratto di una città dove politici e magistrati sono in continuo contatto e si scambiano favori e notizie, i politici sanno in anticipo che cosa scriveranno i quotidiani del giorno dopo, i leader di partito possono convocare alti magistrati per chiedere intercessioni e i magistrati ricorrono ai politici per fare carriera.
È il resoconto spaventoso, e spaventato, di una città dove ogni colloquio, anche il più riservato, trapela, gli interlocutori sono tutti inaffidabili, i giochi di potere perfidi e misteriosi. In questo labirinto di contatti sotterranei, di relazioni segrete tra pezzi di istituzioni, Insalaco si descrive come un seminarista entrato per sbaglio in un collegio di killer.
Dovunque si aggiri, chiunque incontri, qualunque discorso gli facciano, ha la sensazione di essere la pedina di un grande gioco di potere: il pezzo mosso da esperti giocatori di scacchi in una partita che lo scavalca. E sa, lucidamente sa, che alla fine del gioco sarà stritolato.
Tanto che in calce al memoriale scrive il proprio epitaffio, parlando di sé in terza persona: «Insalaco è stato scomodo, andava buttato via e visto che politicamente non era affidabile, bisognava distruggerlo». Onestamente, non si può dire che non abbia colto nel segno. Conviene seguire il filo di quel racconto: il “dietro le quinte” ricostruito dalla vittima.
Sapendo che chiunque scriva di sé, offre al lettore il proprio lato migliore. Dunque, Insalaco rivela di aver saputo, appena eletto sindaco, che la procura della Repubblica aveva ricevuto una lettera anonima sulla vendita ai Saccone del terreno dell’Istituto Sordomuti.
Non spiega chi gli abbia soffiato quell’informazione. È una comprensibile omissione: il memoriale si chiude con una professione di fede nella magistratura; sarebbe stato sconveniente annotare in premessa che il Palazzo di Giustizia è pieno di spifferi. Più stravagante è che gli sfugga un dettaglio, una coincidenza davvero singolare: l’anonimo approda a Palazzo di Giustizia il 15 febbraio del 1984.
Proprio quel giorno, in Consiglio comunale, viene messa a punto la trappola che affonderà la giunta del sindaco Elda Pucci: la mancata sostituzione dell’assessore socialdemocratico, incappato in una vicenda giudiziaria.
Nessuno, quel 15 febbraio, può giurare che Insalaco sarà il successore della Pucci, ma il suo nome gira con insistenza e qualcuno – evidentemente – pensa bene di chiudere una cambiale in cassaforte, consegnando alla magistratura un anonimo su un affare di cinque anni prima. È un’arma di ricatto pronta a sparare contro Insalaco, se sarà necessario.
Il compito di azionare il grilletto è affidato alla Procura. Il neoeletto dev’essere ben consapevole del potere di minaccia dell’anonimo se, appena entrato in carica, approfitta delle visite di cortesia a Palazzo di Giustizia per parlarne al procuratore della Repubblica e al procuratore generale. Il capo della Procura, Vincenzo Pajno, lo invita a non preoccuparsi: arrivano anonimi su chiunque, spiega amabilmente, perfino su di lui.
Più o meno un mese dopo l’elezione, Insalaco viene a sapere che il sostituto procuratore Carmelo Carrara ha chiesto alle banche notizie sui suoi possibili rapporti con il mafioso Nino Sorci, ucciso nella guerra di mafia, e con i Saccone, i protagonisti dell’affare concluso con l’Istituto Sordomuti. Ancora una volta, nel suo memoriale, evita di spiegare chi lo informi di ogni passo dell’inchiesta.
Preoccupato, il sindaco chiede udienza al procuratore generale, Ugo Viola, che in sua presenza convoca il procuratore della Repubblica, Pajno. I due magistrati lo invitano a parlare con il sostituto procuratore che segue l’indagine, per chiarire tutto. Insalaco esegue. Ma appena si presenta al pm Carrara, il magistrato gli consegna una comunicazione giudiziaria per truffa e corruzione. Scrive Insalaco nel memoriale: «Rimasi di stucco, non sapevo più cosa dire, mi confusi».
Il Palazzo di Giustizia di Palermo
Da quel momento tutto si accelera. E nel racconto che l’ex sindaco ne fa, il Palazzo di Giustizia appare come il crocevia degli intrighi, il luogo nel quale si regolano le grandi partite del potere. Insalaco si consulta con il capo della sua corrente, il fanfaniano Luigi Gioia, che gli spiega come Carrara sia il genero di un alto magistrato, Salvatore Palazzolo, a quel tempo presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta. Gioia aggiunge che Palazzolo mira alla poltrona di primo presidente della Corte d’Appello di Palermo.
Qualche giorno dopo, sarà proprio il leader fanfaniano a rassicurare Insalaco sostenendo di aver parlato con Palazzolo, che ha raccomandato al genero di esaminare «con obiettività» la pratica relativa all’affare dell’Istituto Sordomuti. Nel frattempo è stata avviata un’altra inchiesta: quella sui grandi appalti comunali. Insalaco ne parla con Arturo Cassina. Si aspetta che il padrone della Lesca sia preoccupato. Ma si sente rispondere che il procuratore Pajno è cavaliere del Santo Sepolcro, l’antico ordine religioso del quale Cassina è il luogotenente per la Sicilia, come se questa fosse una buona ragione per non temere nulla. Per il sindaco è un colpo.
Come un pendolo impazzito Insalaco comincia a muoversi tra le stanze dei magistrati, le segreterie politiche, il suo ufficio di sindaco, finché si convince di essere entrato in un gioco più grande di lui, in una faida tra magistrati che si disputano la presidenza della Corte d’Appello, il posto di maggior potere nell’organigramma della giustizia palermitana, e che le sue vicende sono solo un pretesto per regolamenti di conti tra i candidati.
Sempre più inquieto, cerca un’altra strada per arrivare al pubblico ministero dell’accusa. E continua a cercarla nelle segreterie politiche dei capi democristiani. Chiede aiuto a Salvo Lima, chiede aiuto a un altro andreottiano eminente, l’ex presidente della Regione Mario D’Acquisto. L’uno e l’altro gli assicurano che parleranno con Palazzolo. Mentre si presenta, con la fascia da sindaco, alla processione in onore di Santa Rosalia, la patrona di Palermo, il segretario comunista Elio Sanfilippo lo avverte che il Giornale di Sicilia sta preparando un articolo pesantissimo contro di lui.
Insalaco si precipita al giornale, porta con sé «i documenti», ottiene «un pezzo equilibrato». Ma capisce che «potentati si muovevano» per farlo fuori. E fa il nome di Guarrasi, che gli consegna «una memoria a difesa della Lesca». Sente che il cerchio si stringe: «Avevo i giorni contati ma volevo cadere bene».
Nei suoi andirivieni da Palazzo di Giustizia, convocato come teste nelle inchieste sugli affari del Comune, un giorno, nel chiuso di una stanza, faccia a faccia con un magistrato, Insalaco testimonia «la verità e la notorietà di un’amicizia con Ciancimino del presidente Palazzolo», il suocero del magistrato che lo indaga. Dovrebbe essere una testimonianza riservata, ma la notizia trapela: si scatena un vespaio. La candidatura di Palazzolo alla presidenza della Corte d’Appello di Palermo affonda.
Il potente Aristide Gunnella
L’ultimo fotogramma che Insalaco consegna al suo memoriale è il ricordo di un incontro in una galleria d’arte del centro di Palermo con il più potente repubblicano della Sicilia, Aristide Gunnella: «Mi conferma che Cassina ha decretato la mia fine».
Gunnella ha negato di aver mai pronunciato quella frase. E nessuna delle persone citate nel memoriale ha confermato alcuna delle affermazioni di Insalaco. Lo aveva previsto lui stesso: «Tutti si precipiteranno a smentire». Così è stato. Nella galleria di personaggi evocati nel memoriale, spicca una delle figure più controverse della storia palermitana di quegli anni, Bruno Contrada, il funzionario di polizia e dirigente dei servizi segreti che dopo le stragi degli anni Novanta sarà arrestato e condannato a dieci anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa.
Napoletano d’origine, Contrada ha percorso a Palermo un intenso cursus honorum; è stato capo della Squadra mobile, poi capo della Criminalpol per approdare infine al Sisde, a Roma, e diventare il numero tre del servizio segreto civile. Salvo poi rientrare a Palermo, nel 1982, come capo di gabinetto del prefetto De Francesco.
Insalaco racconta di averlo incontrato a Villa Whitaker, la sede dell’Alto commissariato antimafia: «Gli feci confidenze che scaturivano dalla mia fiducia nelle forze dello Stato, facendogli capire che molti personaggi, tutti collegati al conte Cassina dall’Ordine del Santo Sepolcro, erano contro di me, lui (lo, N.d.A.) escluse. Poi, dopo poco tempo, apprendo che anche lui viene iniziato all’Ordine».
Un elenco ufficiale dei cavalieri dell’Ordine del Santo Sepolcro stampato nel 1983 certifica che il «cav.uff.dr.» Bruno Contrada è stato «ammesso il 22 novembre 1982». Poteva dunque fregiarsi delle insegne di cavaliere da quasi due anni quando l’angosciato Insalaco gli confidò di ritenersi una vittima degli adepti a quella antica congrega, senza sapere che anche lui ne faceva parte.
È probabile che Insalaco lo abbia scoperto leggendo il Giornale di Sicilia. Il 2 novembre 1984, festa dei defunti, il quotidiano della città pubblica, sotto il titolo a sei colonne Spada, speroni e croce ai nuovi cavalieri, la cronaca della cerimonia che ventiquattr’ore prima si è tenuta nel Duomo di Monreale per l’investitura dei nuovi membri dell’Ordine.
Un riquadrato informa: «In 39 hanno detto: sono pronto» ed elenca generali e prefetti, questori e magistrati, alti ufficiali dei carabinieri e deputati. Due nomi devono colpire Insalaco: il primo è quello di Bruno Contrada, il secondo quello del procuratore della Repubblica Vincenzo Pajno. La cronaca dell’investitura gronda un pathos neogotico: «Nella chiesa, a destra del coro, le dame in mantello nero sul quale pareva bruciassero le cinque croci rosse di Gerusalemme, a sinistra i cavalieri in uniforme bianca e rossa o in abito nero sotto una candida mantella».
Su questo sfondo, si staglia la figura del padrone della Lesca: «A rilanciare l’Ordine nella nostra Isola è stato Arturo Cassina, la cui opera è stata premiata prima con l’istituzione della Delegazione Magistrale e dopo, il primo dicembre 1981, con il ripristino di un’unica luogotenenza».
La rappresentazione solenne che va in scena nella cornice del Duomo di Monreale ha al centro un Cassina potente, circondato da potenti e davanti al quale i potenti si inginocchiano. È curioso che quest’esibizione di sfarzo e di potere coincida con la stagione in cui il padrone della Lesca è stato sfidato dai sindaci Pucci e Insalaco. Sarà pure una coincidenza, ma è una strana coincidenza.
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