A tenere costantemente aperto il negoziato sono lo statunitense Hochstein e il libanese Berri. E l’alternanza tra violenza e riduzione di intensità del fuoco è parte dello stesso confronto
«Ci sono novità». Tre parole semplici per darsi appuntamento in un edificio anonimo alla periferia di Sidone, 40 chilometri a sud di Beirut, lontano dall’attenzione pubblica.
L’ufficiale dei servizi di sicurezza militari è arrivato con un’auto civile. A scortarlo c’è solo l’autista, rimasto all’ingresso del palazzo. Il frastuono del generatore di corrente è assordante.
Dura poco più di un quarto d’ora l’incontro tra il rappresentante dello Stato e un esponente di Hezbollah, incaricato da Wafiq Safa, alto dirigente del partito, di coordinarsi con le forze armate libanesi per le questioni operative sul terreno.
La novità di cui si è discusso riguarda come la “resistenza” – così come localmente ci si riferisce alle attività armate di Hezbollah – abbasserà temporaneamente il livello dello scontro col “nemico” israeliano alla luce della ripresa dei contatti politici ad alto livello per preparare un eventuale accordo post conflitto tra Hezbollah e Israele.
Negoziato mai interrotto
Perché il negoziato indiretto tra questi due attori chiave del Medio Oriente non si è mai interrotto. La stessa alternanza tra inasprimento della violenza armata e riduzione di intensità del quotidiano scambio di fuoco è parte del negoziato.
Non è un caso, ed è già avvenuto altre volte nel corso degli undici mesi di guerra, che le trattative politiche siano riprese più intense subito dopo un picco di escalation bellica.
Dopo l’innalzamento della tensione ad agosto la macchina negoziale si è rimessa in moto in questi ultimi giorni. E la palla è tornata a rimbalzare tra il rumore sordo della battaglia, lungo linea di demarcazione tra Libano e Israele, e le accoglienti e ovattate stanze di due attori navigati e di primissimo piano: lo statunitense Amos Hochstein, intermediario per conto di Israele e di Washington; e il libanese Nabih Berri, intermediario per conto di Hezbollah e, tramite lo stesso Partito di Dio, dell’Iran. Sebbene Hochstein, consigliere presidenziale Usa per l’Energia e gli Investimenti, abbia fatto sapere di non avere ancora programmato il suo prossimo viaggio in Libano, i contatti sono ripresi.
Tanto che Berri, inamovibile presidente del parlamento libanese, ha messo di nuovo in moto la macchina istituzionale per l’elezione del capo di Stato libanese. La carica è vacante ormai da due anni. E si attende un accordo su scala locale e regionale, condizionato alla ridefinizione degli equilibri nello scenario post conflitto.
Il 51enne Hochstein non è un mediatore super partes. Nato a Gerusalemme, ha servito nell’esercito israeliano negli anni in cui i militari dello Stato ebraico occupavano il sud del Libano (1978-2000). È un uomo legato ai democratici americani, ma è apprezzato anche dai repubblicani.
È un uomo che da più di 20 anni va a braccetto con quasi tutti i rappresentanti delle élite regionali. E che è destinato a rimanere una figura di spicco nelle trattative mediorientali anche dopo le elezioni presidenziali Usa di novembre.
Nabih Berri, 86 anni, è un highlander della politica mediorientale. Nato da libanesi della diaspora sciita in Sierra Leone, è malato da tempo. Eppure, rimane l’ago della bilancia degli equilibri. Da più di mezzo secolo, Berri è leader di Amal, partito-milizia libanese, storicamente vicino alla Siria della famiglia Assad. Da più di tre decenni alleato di Hezbollah, da 32 anni Berri ricopre la seconda carica del paese.
Già dal 2010 aveva cominciato a negoziare con Washington per la spartizione di risorse energetiche al largo delle coste tra Libano e Israele. Un negoziato che si è concretizzato solo 12 anni dopo, nell’ottobre del 2022, quando i due paesi hanno raggiunto, tramite la mediazione americana, lo storico accordo per la delimitazione della frontiera marittima, condizione necessaria per spartirsi la torta di giacimenti di gas naturale, dove dovrebbe operare il consorzio composto da TotalEnergies, Eni e QatarEnergy.
Le “tattiche” diplomatiche
I più ottimisti affermano che l’accordo marittimo può servire da spunto per risolvere una questione politica assai più delicata: la definizione del confine terrestre tra Libano e Israele, in stato di belligeranza sin dalla loro nascita come Stati indipendenti. Attorno a questa idea e ben prima del 7 ottobre 2023 lavorano Hochstein e Berri. Quest’ultimo è sia rappresentante dello Stato sia interlocutore privilegiato di Hezbollah.
Torna così il gioco di specchi tra Stato e le sue alterazioni esterne, in una compenetrazione complessa tra istituzioni – di cui Hezbollah fa parte con ministri, deputati, sindaci – e partito armato con una dimensione regionale, che trascende i confini geografici del Libano.
Ecco perché l’incontro avvenuto nei giorni scorsi a Sidone è solo un pezzo di un puzzle più ampio. Al terzo piano di quella palazzina dalla facciata scrostata, Hezbollah si è limitato a informare l’esercito – lo Stato – di cosa succederà e di cosa non succederà nei prossimi giorni nel fronte sud.
Qui, tra gli Hezbollah e i militari Unifil, la missione militare Onu di cui fanno parte un migliaio di italiani, è presente anche uno sparuto contingente di militari libanesi.
Per le questioni tattiche e operative, l’ufficiale di collegamento di Hezbollah si coordina col collega dell’intelligence militare, nelle zone meridionali libanesi a capo del colonnello Suhayl Harb, sciita, originario della zona di Nabatiye e indicato come vicino a Berri.
Sul piano strategico e politico, Berri e Hochstein, e i loro rispettivi interlocutori armati, rimangono in ascolto l’uno dell’altro, tenendo apparecchiato il tavolo del negoziato, in attesa che si raggiunga un accordo quadro sulla definizione dello statu quo nella Striscia di Gaza.
Hochstein ha più volte avanzato la richiesta americana e israeliana di dividere il dossier di Gaza da quello del Libano. Hezbollah e l’Iran, assieme a Hamas, agiscono invece in un’ottica di fronte unico. E non cedono alla ormai collaudata strategia negoziale israeliana di frammentare il fronte rivale trattando in maniera bilaterale e non multilaterale. Ma non è questo l’unico punto su cui le parti sembrano irrimediabilmente distanti.
Israele chiede in pratica la creazione in territorio libanese di una zona cuscinetto di 40 chilometri dalla linea di demarcazione al fiume Litani. Hezbollah e il suo alleato iraniano non intendono certo cedere il loro principale strumento di pressione: la presenza armata affacciata sulla Galilea.
Alla luce di questo braccio di ferro vanno dunque letti i periodici innalzamenti della tensione tra Hezbollah e Israele: entrambi, assieme ai loro alleati locali e internazionali, cercano di alzare la pressione sulla controparte per ottenere un vantaggio negoziale al tavolo del post conflitto.
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