In questo ultimo decennio le serie televisive e i documentari sugli sportivi sono stati prodotti come in una catena di montaggio, dove fiction e non fiction – a volte in buona, altre in malafede – si sono alternate senza stare troppo a delinearne il confine e cercando esclusivamente di appagare l’interesse del pubblico appassionato
Out of the Floodlights, fuori dai riflettori. È questo il titolo della nuova serie televisiva che racconta Jude Bellingham, dalla sua ultima partita con il Borussia Dortmund alla finale di Euro 2024: sua la storia, sua la sceneggiatura, suo il punto di vista.
Oramai non è una novità che i calciatori più famosi e alcuni club, gli sportivi in generale, autoproducano serie televisive o docufilm nei quali si raccontano, edulcorando gli argomenti più divisivi o affrontandoli dal proprio punto di vista. Dove il giornalista, che una volta era l’intermediario tra il campione e il pubblico, se va bene è uno degli autori.
David Beckham ha vinto addirittura un Emmy per la serie andata in onda su Netflix in quattro puntate. Mentre Cristiano Ronaldo ha scelto di farsi intervistare da Piers Morgan, storico giornalista e conduttore televisivo britannico, per raccontare il passaggio dal Manchester United all’Al-Nassr.
Uno dei primi documentari sportivi risale al 1952 ed è italiano. Gli 11 moschettieri era il racconto della Nazionale italiana, dagli albori alle vittorie iridate del ’34 e del ’38, inframezzate dall’oro olimpico di Berlino, per terminare con la tragedia di Superga che condizionò molto l’Italia calcistica nel Dopoguerra. I due registi erano Fausto Saraceni ed Ennio De Concini, premio Oscar nel 1963 per la sceneggiatura di Divorzio all’italiana. Nel 1956 fu la volta di Saeta rubia, su Di Stefano, e nel 1962 Garrincha, alegria do povo di Joaquim Pedro de Andrade, uno dei padri del Cinema Novo. Nel 1976, invece, Johan Cruijff, con la regia di Sandro Ciotti, inaugura i racconti biografici dei calciatori, più vicini a quelli che conosciamo oggi, con Il profeta del gol. In quell’occasione Ciotti intervistò Cruijff – doppiato da Ferruccio Amendola – e i più importanti calciatori italiani che avevano giocato contro di lui, da Dino Zoff a Gianni Rivera e Lele Oriali, che l’aveva dovuto marcare nella finale di Coppa dei Campioni persa dall’Inter contro l’Ajax nel 1971. Nel 1993 uscì Michael Laudrup - en fodboldspiller di Jørgen Leth, nel 2000 Best per la regia di Mary McGuckian, nel 2005 Paolo Maldini - Il film di Paolo Ameli e nel 2008 Maradona di Kusturica dell’omonimo regista e sceneggiatore bosniaco naturalizzato serbo Emir Nemanja.
In tutti, però, che ci fosse o meno la mano del giornalista, c’era una visione quanto più oggettiva possibile del personaggio, quasi mai considerato intoccabile, seppur rispettandone la centralità nella storia di uno sport popolare come il calcio.
In questo senso, Diego Armando Maradona, il giocatore più forte di sempre, è stato vivisezionato in tutte le sue fragilità, dentro e, soprattutto, fuori del campo. Non ultimo l’inedito Diego Maradona di Asif Kapadia, realizzato grazie a più di 500 ore di filmati mai visti prima, messi a disposizione dalla famiglia del campione argentino, andato in onda su Netflix. Per arrivare al racconto degli anni napoletani fatto dalla figlia Dalma.
In questo ultimo decennio le serie televisive e i documentari sugli sportivi sono stati prodotti come in una catena di montaggio, dove fiction e non fiction – a volte in buona, altre in malafede – si sono alternate senza stare troppo a delinearne il confine e cercando esclusivamente di appagare l’interesse del pubblico appassionato. Colpa anche di chi, tra i giornalisti, ha iniziato a romanzare racconti veritieri per dargli un’aura leggendaria, senza badare ai danni che stavano provocando.
In Out of the Floodlights, Jude Bellingham parla direttamente in camera al suo pubblico, e la prima puntata sul canale YouTube del calciatore britannico ha avuto più di 2,5 milioni di visualizzazioni. Perché non è solo potersi raccontare senza i filtri dell’oggettività giornalistica – la piattaforma The Players’ Tribune, per esempio, ha aiutato in questo processo di disintermediazione – come ha fatto pure Francesco Totti in Mi chiamo Francesco Totti, per la regia di Alex Infascelli, ma è anche la continua pubblicità del proprio marchio, dell’essere un brand forse prim’ancora che sportivi, e portare così l’acqua al proprio mulino. Sia quella della narrazione che quella del denaro.
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