Tanto, troppo azzurro. Ma solo tra gli under. Vincono Europei, arrivano a un passo dal trionfo mondiale: i nostri baby del calcio sono una vera potenza. L’Italia under 17 campione d’Europa contro il Portogallo è solo l’ultima di una schiera. Un anno fa aveva alzato la coppa l’Under 19. E sempre nel 2023 i ragazzi dell’Under 20 avevano sfiorato la Coppa del Mondo arrendendosi soltanto all’Uruguay.

Tutti bravi, tutti forti i nostri azzurrini. E, come dice Maurizio Viscidi, coordinatore di tutte le nazionali giovanili maschili, «a livello europeo siamo nella primissima fascia». Dunque: i migliori siamo noi, ma siamo o non siamo una potenza del calcio? «Non esageriamo, abbiamo dei giocatori bravi. Perché se non hai del talento in campo non ce la fai».

Le ombre

Qualcosa però non torna. L’Under 21 non decolla, la partecipazione alle Olimpiadi è off limits da Londra 2012 e l’ultima medaglia risale addirittura ai Giochi di Atene. La nazionale maggiore alterna exploit clamorosi a fallimenti iconici, dalle stelle alle stalle nel giro di un amen. Certezze ne danno solo loro, i ragazzini in rampa di lancio. «Il meccanismo si inceppa nell’inserire i giocatori nelle prime squadre, lì c’è grande difficoltà. Ci sono dei motivi. Il primo: gli allenatori delle prime squadre vengono giudicati solo per i punti e non per la valorizzazione del patrimonio. E questo spesso accade anche con i direttori sportivi. Tutti pensano a salvare la panchina, e nessuno ha una visione a lungo termine. Se non hai una tranquillità in termini contrattuali non puoi investire sul futuro. Cioè: se basta una stagione fatta male per andare via, come fai a fare un settore giovanile forte?».

La tesi di Viscidi

Viscidi entrò nel settore giovanile azzurro nel 2010 come vice di Arrigo Sacchi. E nel corso degli anni sono successe tante cose: sul campo (mancate qualificazioni ai Mondiali e vittoria dell’Europeo), e altrettante dietro le scrivanie. La politica del calcio ha visto avvicendarsi tre presidenti e un commissario: da Abete a Tavecchio («Le nazionali giovanili? Dovrebbero allenarsi di più»), da Fabbricini all’attuale presidente federale Gravina.

Nell’Italia del trasformismo, del nepotismo, del ce penso io, una cosa non è mai cambiata: il lavoro nel Club Italia. «Perché abbiamo fatto risultati? Perché io e Sacchi siamo entrati quattordici anni fa. Devi saper programmare, organizzare, anche perdere, e poi migliorare. La vera forza insomma è stata la continuità».

Ma non basta affinché un calciatore possa esplodere nel mondo della Serie A, primeggiare con la maglia dell’under non è sufficiente per entrare nell’arena del massimo campionato. Italiano, almeno. «Sono due cose diverse. A noi quello che interessa è la prestazione. Vincere l’oro certifica che sei bravo, ma quello che conta davvero è come giochi. Stare in prima squadra è un fatto di maturità a 360 gradi. Nelle giovanili conta fare delle performance tecnico-tattiche, ma non sei ancora pronto per una prima squadra. Sono due mondi diversi».

Gli investimenti

Quasi paralleli, che non riescono a incrociarsi mai, a parlare, a trovare il modo di interagire. I campioni d’Europa del cittì Massimiliano Favo giocano in squadre come Milan, Inter, Roma, Napoli, Juve. Addirittura Real Madrid. Non tutti, però, arriveranno in prima squadra. Come se far parte di un grande club a sedici-diciassette anni fosse un gioco. Da ragazzi. Appunto. Una volta adulti, però, bisogna andare via, andare a farsi le ossa su campi caldi, stretti, ruvidi. Storie di periferia.

È successo a tanti dei giovani che hanno vinto il Campionato d’Europa l’anno scorso. Un prestito, un nuovo inizio. Certo, aggiunge ancora Viscidi, «le seconde squadre sono un aiuto alla crescita del giovane. Qui ci sono talenti che se escono dal tipo di calcio che facciamo e giocano con palla lunga e pedalare poi vengono considerati non all’altezza».

Solo in Serie A, nei settori giovanili si investe tra 110 e 120 milioni a stagione per acquisizione di cartellini, stipendi e costi di gestione. Non granché. Però, spiega Viscidi, «lo si vede sempre come un costo e non come un investimento. Si pagano poco gli allenatori: quelli bravini fanno la tattica e insegnano, gli altri pensano al risultato. Manca la centralità del miglioramento del giocatore per puntare al risultato».

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