È stato la bandiera liquida dei Senza Ideologia, per battere Guardiola si è dato al catenaccio – lui che prima voleva essere un Arrigo Sacchi al Milan, poi un Lippi alla Juventus: il suo vero inferno dantesco. In realtà è figlio di Guareschi e nella contrapposizione ci sguazza. Per questo viene assolto dove Max Allegri risulta crocifisso, perché ha Peppone e Don Camillo e non l’antipatia dei toscani che son “spregiosi”, come diceva Malaparte
Lo scrittore Javier Marías, grande madridista, guardava le squadre e i loro linguaggi come si guardano i film di Ford o Lubitsch, sapendo che gli autori usano interpreti diversi ma a loro affini: «mai John Wayne in un’opera di Billy Wilder», o mai i galácticos per centodieci minuti nella propria area di rigore. Purtroppo non sappiamo se anche Marías avrebbe fatto prevalere il pragmatismo davanti alla strategia ancelottiana che poi ha portato il Real Madrid in semifinale.
Ma la sua visione precedente ci serve come giurisdizione eloquente per entrare nel dibattito: allenatori giochisti contro allenatori risultatisti. Categorie che tendono a semplificare, perché proprio Carlo Ancelotti è un allenatore in continua metamorfosi, ci vorrebbe una terza categoria per la sua liquidità. Diciamo allenatori terzisti o baumaniani: che all’occorrenza tradiscono le proprie idee o contraddicono la tradizione calcistica della squadra che allenano o scelgono una strategia che abbassa il livello tecnico dei calciatori impiegati, vedere Jude Bellingham fare il terzino è anche interessante, ma dovrebbe essere l’ultima delle aspettative di Florentino Pérez o di un altro tifoso del Real Madrid.
A parte che la scelta come quella di Ancelotti di mettere giù due linee compatte e farsi picchiare dal Manchester City dopo aver segnato un gol, è vecchia e va da Coverciano – dove un tempo si insegnava il catenaccio, ritenuto la migliore strategia calcistica per le caratteristiche italiane – a Kinshasa – dove Muhammad Ali si fece picchiare da George Foreman fino all’ottava ripresa – da Nereo Rocco a Max Allegri, alternandosi all’arrivo degli assolutisti dell’attacco, i terzini di Hegel.
Bayern-Real semifinale di Champions
Ora, Carlo Ancelotti, torna a Monaco di Baviera: un posto dal quale fu esonerato perché non aveva vinto la Champions League – non bisognerebbe mai rivelare le proprie preferenze, poi gli altri le ricordano e te le chiedono con assiduità – e le sue sedute di allenamento furono ritenute blande, i senatori della squadra di allora, era il 2017, Ribéry, Robben, Hummels, Müller e Lewandowski gli si rivoltarono contro molto subdolamente, Robben disse che la squadra del figlio si allenava con più intensità, forse per giustificare le sessioni segrete di allenamento che organizzava con altri compagni. A parte l’eccesso di dedizione dei calciatori tedeschi che poi divenne indisciplina e ammutinamento, quell’esonero di Ancelotti fu emblematico: per la prima volta veniva meno il metodo che tanto aveva funzionato, e che poi anche a Napoli portò a un nuovo ammutinamento e all’esonero.
Carlo non lascia mai le squadre, non si dimette mai, da vero capitano di vascello, e tocca cacciarlo. Nacque così il “bollito” – che è tornato a galla dopo la vittoria contro Pep Guardiola, ma come rivendicazione – che è poi il suo piatto preferito, e come disse a Gianni Mura lo accompagna con la mostarda e non con il rafano, a riprova che si muore sempre in quello che più ci piace. Ma il bollito rimane un piatto e non una definizione che lo riguarda, non lo era al Bayern né al Napoli e nemmeno all’Everton, queste ultime due squadre sono state il suo purgatorio prima del ritorno al paradiso del Real Madrid.
Un paradiso di angeli biondi, come diceva sempre Javier Marías, puro cinema di Hitchcock, con preferenza per le bionde: Di Stéfano, Kopa, Netzer, Velázquez, Pardeza, Prosinecki e Butragueño. Quello di Ancelotti ha solo tre biondini: Toni Kroos, che poi è l’incarnazione del baumanesimo di Carlo: un calciatore talmente capace a tutto, che può diventare capace di tutto; Luka Modrić, l’eversione a cottimo, da maneggiare con cura nelle fasi finali; e Andrij Lunin il portiere di scorta che ha eliminato il City.
Il gatto di Deng Xiaoping
Il carattere vincente di Ancelotti a Madrid ha trovato il suo momento ossimorico nei quarti di finale con Pep Guardiola, e quella partita, per quanto passata, è diventata l’incrocio della stagione, mentre Thomas Tuchel, allenatore del Bayern, dice che Ancelotti è un mito e che ama la sua umiltà, seguendo il manuale di Guardiola: figliolo, elogia sempre l’avversario e non avrai problemi, soprattutto se poi vinci. Crea delle iperboli calcistiche sui tuoi avversari in modo da distrarre sul resto. Insomma, va bene che come diceva Deng Xiaoping «non importa se il gatto è bianco o nero, l’importante è che acchiappi i topi», quindi non importa se Bellingham gioca terzino e Modrić finisce a fare il centrale mentre Foden e De Bruyne continuano a scodellare pallonetti morbidi per la testa perduta di Haaland, l’importante è portare i calciatori del City in una zona sconosciuta, che hanno dimenticato, in una condizione che non pensavano di dover più affrontare: i calci di rigore, dove, poi, persino Antonio Rüdiger diventa Mbappé.
È stato questo il capolavoro di Ancelotti secondo i più: aver scelto una strategia da provinciale per rimanere la squadra che domina la Champions. Dopo aver risposto colpo su colpo all’andata al Bernabéu, ha scelto la trincea a Manchester, con molto coraggio: ce ne vuole per convincere Vinícius Júnior e Rodrygo a stare inchiodati sotto il centrocampo, a riprova di quella grande capacità di spogliatoio che proprio a Monaco era mancata e forse a Monaco tornerà sotto forma d’attacco, perché Ancelotti, nella sua liquidità, contiene ere calcistiche, può essere tutto, un Blob. Dall’alto dei suoi tituli, sceglie la strategia che gli conviene senza preoccuparsi della critica, perché è il tipo della Cura di Battiato: ha attraversato i campi del Tennessee perdendo i dogmi sacchiani, accettando Zidane e poi storicizzandolo dopo aver fatto disperare Zola sulla fascia a Parma e aver rifiutato Roberto Baggio in faccia a Callisto Tanzi.
Filosoficamente, alzando un sopracciglio, Ancelotti è stato più cose di Giuliano Ferrara ed è altrettanto bravo a giustificarle, ma a differenza dell’ex direttore del Foglio è più bravo a vincere. È evidente che sia diventato una sorta di Alex Ferguson a Madrid, e che quando se ne andrà misureranno il vuoto, dove prima voleva essere un Arrigo Sacchi al Milan e un Lippi alla Juventus – il suo vero inferno dantesco, doppia punizione per un tifoso della Roma e un grande milanista – ma Ancelotti è figlio di Guareschi e nella contrapposizione ci sguazza. Per questo viene assolto dove Max Allegri risulta crocifisso, perché ha Peppone e Don Camillo e non l’antipatia dei toscani che son “spregiosi”, come diceva Malaparte.
L’ancelottismo non esiste
Per questo non è nato l’ancelottismo, perché è impossibile stargli dietro: troppo calcio, troppe vittorie e tante crisi: chi sarebbe sopravvissuto a un campionato perso a Perugia? E a una finale come quella di Istanbul? Solo Ancelotti. In lui convivono l’eversione romantica e il cinismo tattico. Tanto che Javier Marías lo fa oscillare tra Del Bosque e Molowny. A riprova che non è inquadrabile, che non sta fermo, nemmeno quando si chiude in difesa. Ma resta il dubbio – antico come il calcio – su come vincere: speculando o attaccando? Sperperando o risparmiando? Ancelotti ha dimostrato che etichette e categorie nascono per essere tradite.
E come Carl von Clausewitz, grande stratega, elogia la ritirata come la più difficile di tutte le operazioni. La sua complessità è antica: parte dalla povertà contadina passa per Bernardo Bertolucci e con lui diventa globale. Parlando una lingua fra le più piane e familiari del calcio, per questo immediatamente comprensibile, ma che dentro ha tanto vento: quello dei suoi calciatori che fanno movimenti inattesi, mimando l’imprevedibilità del quotidiano. Un giorno dopo l’altro, una partita dopo l’altra, una vittoria e una ancora, non importa come.
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