La sua retrocessione era stata festeggiata un anno fa da molte tifoserie. Nell’immaginario collettivo è probabilmente il club dalla parabola più fraintesa. Da squadra simpatia il Sassuolo è diventata una delle meno amate, attraverso mistificazioni incapaci di trovare una sintesi, buone per narrazioni di comodo
A distanza di qualche centinaio di metri dallo stadio in linea d’aria, undici mesi fa ci fu chi fece scoppiare fuochi d’artificio per festeggiare la retrocessione in B del Sassuolo, pochi secondi dopo il fischio finale della partita contro il Cagliari, quella che rese matematica la caduta in B del Sassuolo. A Reggio Emilia c’era da aspettarselo, tanto si era incancrenito il rapporto del territorio nei confronti di una società di forestieri divenuta padrona di casa nei dieci anni di permanenza in A.
Meno scontata la gioia di buona parte dei tifosi di altre squadre, liberati dalla presenza di un avversario cordialmente detestato perché considerato una sorta di club ogm, senza radici, il prodotto di scelte fredde e calcolatrici, il paradigma del calcio come non dovrebbe essere.
Ebbene: dominata la B con un campionato da record, il Sassuolo è pronto a rimbalzare immediatamente in Serie A. Questa domenica o la settimana prossima, male che vada a Pasquetta. Questione di giorni.
Come Jessica Rabbit
È che lo disegnano così, il Sassuolo, come Jessica Rabbit. Cattivo? Macché, eppure nell’immaginario collettivo è probabilmente il club dalla parabola più fraintesa. Sin da quando nel 2013 ottenne la prima promozione. Si parlò di favola, ai tempi, con tutte le appendici retoriche del caso: la piccola debuttante, il miracolo di provincia (quella di Modena, nella quale Sassuolo ha meno abitanti anche di Carpi), il paesone che nemmeno aveva uno stadio adeguato e che per questo la B l’aveva giocata nel capoluogo, al Braglia.
Un travisamento semantico in piena regola: ammesso che le favole esistano ancora nel calcio contemporaneo, definire tale quella del Sassuolo significava, semplicemente, non averla capita: più che un sogno, la A era un obiettivo, il club non ci era arrivato per caso.
Il peccato originale di chi il Sassuolo lo guarda da lontano sta proprio lì, nell’avere considerato Giorgio Squinzi come un mecenate e basta, non come un imprenditore che, a differenza di altri, la società di calcio l’ha concepita davvero come un’azienda da far funzionare.
Tutto e il suo contrario
Così, una volta impostosi, da squadra simpatia il Sassuolo è diventato uno dei club meno amati del calcio italiano, attraverso mistificazioni incapaci di trovare una sintesi, buone però per narrazioni di comodo. Una su tutte: è vero sì che il Sassuolo è nelle mani di Mapei, una multinazionale con sede a Milano e interessi in tutto il mondo (circa 12.500 dipendenti, stabilimenti in 53 nazioni in tutti i cinque continenti, 4,2 miliardi di euro il fatturato consolidato al 31 dicembre 2023), ma è vero anche che Sassuolo è la capitale del comprensorio che produce l’80% della ceramica italiana, un’area che ha fatto la fortuna di aziende come Mapei e le sue concorrenti e, in qualche modo, si tratta di un legame di business – anzi: un collante – più che sufficiente per parlare di restituzione.
In questo senso, l’investimento nel Sassuolo (che la prima sponsorizzazione da Mapei la ottenne negli anni Ottanta, prima di diventarne un asset nel 2003) è ancor più coerente rispetto a quello che Squinzi, per passione personale, fece nel ciclismo, negli anni Novanta, creando una delle squadre più forti del circuito, con Tony Rominger, Pavel Tonkov, Johan Museeuw, Paolo Bettini, Tom Boonen.
Ecco: da oltre vent’anni il Sassuolo ha la stessa proprietà e, anche dopo la morte di Squinzi, nel 2019, nulla è cambiato. In Italia, fra A e B, solo quelle di Juventus, Empoli e Cittadella sono più longeve, mentre quella di Stirpe a Frosinone è iniziata nello stesso anno: una continuità encomiabile in un contesto nel quale si è visto di tutto, dai fondi agli avventurieri, dalle multiproprietà a figure che hanno portato in alcuni casi perfino club storici al fallimento.
E lo Scansuolo – ricordate? – quello che si scanserebbe al cospetto di alcune grandi, Juventus su tutte? Beh: a dirla tutta, le squadre contro le quali il Sassuolo ha ottenuto di meno, tra quelle che ha affrontato con continuità in A, sono Napoli, Roma e Atalanta. Già così si può capire che il Sassuolo è molto più complesso di come lo si racconta: è tutto, ma è anche il suo contrario.
Casa e bottega
Negli anni di A, il club si è fatto la fama di bottega carissima, se si pensa a quanto è riuscito a guadagnare (e generare plusvalenze) dagli acquisti e dalle successive cessioni dei vari Locatelli, Frattesi, Scamacca, Politano e via dicendo. Prezzi forse anche superiori al valore assoluto dei calciatori, e non è solo il “quanto”, ma il “come”, le formule – tipicamente i prestiti con obbligo di riscatto, incondizionato o a condizioni facilmente attuabili – che, pure a fronte di costi elevati, hanno consentito ai club acquirenti il saldo alcuni anni dopo le operazioni, favorendo i bilanci di tutti.
Anche per questo il Sassuolo non piacerà ai sostenitori altrui, ma piace agli altri club quale alleato affidabile sul mercato. «Se sai che una cosa è giusta e ci si può aiutare tra società, bisogna farlo», spiegò l’amministratore delegato Giovanni Carnevali nell’estate 2023, commentando una delle tante operazioni con la Roma – gli arrivi a Sassuolo di Volpato e Missori – fatta entro il 30 giugno, per consentire ai giallorossi di iscrivere plusvalenze a bilancio. Discutibile? Forse sì, ma almeno fu un’operazione verità.
E se con il player trading il Sassuolo ci sa fare, è vero che ha pure uno dei migliori settori giovanili d’Italia: la Primavera ha vinto lo scudetto nel 2024 (e tre delle ultime sette edizioni del Viareggio), dal suo vivaio sono usciti, fra gli altri, Raspadori e Berardi, entrambi campioni d’Europa con la Nazionale, il primo oggi a Napoli, il secondo, a 30 anni, è in neroverde da sempre, quasi una storia d’altri tempi.
Così, mentre a livello di strutture, il Sassuolo – tramite la sua controllante – può contare sulla proprietà di un centro sportivo all’avanguardia e sulla gestione dello stadio cittadino, il piccolo Ricci, destinato alla squadra femminile, anch’essa in Serie A (nata assorbendo di fatto la storica Reggiana femminile), resta aperta la questione della casa della prima squadra maschile, lo stadio di Città del Tricolore.
Mapei lo acquistò nel 2013 dal tribunale di Reggio (era uno dei beni della fallita Reggiana), lo ha riqualificato, ma non riesce a farlo digerire al suo tifo («questo stadio non ci appartiene», canta; ma appartiene a Mapei) e meno che mai alla parte granata della città che non accetta di essere ospite – lo ha confermato nell’ultimo derby, a fine marzo – sentendosi a casa propria. Il rapporto con Reggio, del resto, non è mai stato facile a livello sociale.
Il motivo? Dalle affiliazioni con le scuole calcio a diverse iniziative sul territorio, il Sassuolo sta realizzando ciò che tutti vorrebbero realizzasse la Reggiana. Ma la Reggiana non ha nemmeno lontanamente la potenza di fuoco di Mapei, per questo il Sassuolo è indesideratissimo. E lo sarà di nuovo ancor di più in A. Ma davvero è una colpa?
© Riproduzione riservata