C’è un'Italia che il calcio lo gioca con le scarpe infangate e i conti in rosso, tra stadi semivuoti d’inverno e promesse che evaporano in estate. È l’Italia di Serie C. Era il cuore pulsante del nostro sistema calcistico, il vivaio delle idee e dei talenti. La palestra del futuro. Oggi è una nomadland. Una terra sospesa tra professionismo e fallimento, tra passione e conti che non tornano, tra slanci di riforma e l’eterno ritorno del già visto.

Gli ultimi fatti sono già cronaca: esclusione di Turris e Taranto dal girone C per questioni amministrative a campionato in corso. La classifica è stata stravolta. Due volte. Il presidente del Trapani Valerio Antonini, sui social, ha profetizzato una terza esclusione: «Il 16 aprile toccherà al Messina». Non manca molto.

E c'è una squadra, la Lucchese, che fa sciopero perché di soldi per gli stipendi non ce ne sono più. In uno degli ultimi consigli federali della Figc il presidente Gabriele Gravina, che il mondo della C lo conosce, aveva dovuto ammettere che certe situazioni «stanno alterando l’equa competizione».

La sostenibilità

La Serie C traballa, ma è il calcio che non regge più. E se il mondo variegato e multiforme delle piccole realtà, dei comuni, è da tempo in allarme, in alto come in basso (anche la Serie D quest’anno ha perso due squadre) le fondamenta non sono più sicure. «La necessità è diventata ora un'urgenza visto quanto sta accadendo in Serie C», aveva detto ancora Gravina, diventato anche primo vicepresidente dell’UEFA. L’ultimo caso eclatante è quello della Lucchese. Una squadra che batte la Ternana, si rilancia nella corsa salvezza e poi, a una manciata di ore dalla prossima partita, annuncia lo sciopero.

Secondo molti alla fine il club giocherà contro il Pontedera (domenica) e chiuderà la stagione (mancano quattro giornate). Ma il caso Lucchese è lo specchio di quello che accade nel calcio, e in C in particolare. Non è un esempio isolato. Fino a gennaio il club era saldamente nelle mani del gruppo Bulgarella. I piani iniziali erano quelli di fare il salto di categoria entro un arco temporale di cinque anni, ma le condizioni di salute del presidente, si legge nella nota diffusa dal gruppo, «hanno influito sul completamento di questa avventura imprenditoriale e sportiva, con la conseguente rapida cessione societaria». La Lucchese è passata a una cordata di imprenditori lombardi rappresentata dall’avvocato napoletano Giuseppe Longo, che otto giorni dopo annunciava così la Sanbabila srl: «Non siamo degli scappati di casa». Da otto mesi, però, i calciatori della Lucchese non prendono lo stipendio.

L’imprenditoria locale

Mentre il gigacapitalismo, i social e il post-globalizzazione stanno rimescolando l’economia intera, la Serie C fa ancora i conti con un mondo più ristretto: quello dell’imprenditoria locale. Il 99% dei club in terza serie sono nelle mani di imprenditori che devono far fronte a costi altissimi. L’80-90% dei ricavi viene utilizzato per il pagamento degli stipendi. E alzando lo sguardo alla B si capisce che il sistema non può reggere ancora per molto: il dato sale al 110%, cioè si spende più di quel che si guadagna. Non proprio una strategia.

In Serie A reggono i club con proprietà ricche, magari straniere, e che hanno voglia di finanziare ancora la fabbrica dei sogni. Ma gli stipendi sono sempre più alti, gli agenti vogliono sempre più soldi, gli incassi sono pochi e lo spettro del covid è ancora vivo (per un anno ancora i club dovranno farci i conti).

In C, dove il mondo dei sogni è più piccolo, molti non ce la fanno più. La parola sostenibilità è un tema centrale che ha suscitato interesse da parte di tutte le componenti. «Non possiamo avere società che entrano ed escono e classifiche riscritte, dobbiamo salvaguardare le competizioni. È un'esigenza oggettiva di sistema. La sostenibilità richiede un progetto, non può essere fine a se stessa», aveva detto Gravina.

Giocare un campionato competitivo in Serie C costa. Al Sud più che al Nord. Nel girone C un club con ambizioni di promozione può arrivare a spendere 8-10 milioni di euro.

Utili e debiti

Nella scorsa stagione, su 58 società (escluse quindi le seconde squadre di Atalanta e Juventus), 8 hanno registrato un utile: Sorrento, Cerignola, Francavilla e Carrarese nell’ordine dei 100-200mila euro, Sestri Levante, Latina, Torres e Giugliano per alcune migliaia di euro. Nello stesso campionato in cui si celebra il ritorno di piazze storiche e si registrano aumenti del 31,5% di presenze allo stadio (report da VareseSport), la realtà quotidiana dei giocatori è più dura.

Troppe squadre? Matteo Marani, presidente della Serie C, al secondo mandato, sta cercando soluzioni. Molte le ha trovate. Tutti gli indicatori sono in rialzo: le cifre dell’ultima stagione parlano di 2,8 milioni di spettatori sugli spalti, con una media in costante crescita. E 2.500 partite trasmesse sulla nuova piattaforma dedicata. C’è un interesse rinnovato per i settori giovanili, e una rete di club che, in molti casi, rappresentano ancora l’ultimo presidio sportivo e culturale nei territori. Ma il problema è legato al business.

Il tetto salariale

L’anno prossimo verrà sperimentato il salary cap (che dovrebbe poi partire dalla stagione successiva). Le norme europee impediscono di porre un limite, posso pagare chi voglio quanto voglio. E allora si è pensato di valutare il rapporto tra fatturato e monte stipendi: chi lo supera dovrà pagare una luxury tax. Più o meno come fanno in Nba.

Non basta. Dal 2000 a oggi sono quasi 200 le squadre professionistiche fallite a tutti i livelli. La maggior parte in Serie C, non può essere un caso. Dal 2010 a oggi i fallimenti sono stati un centinaio. Anche i punti di penalizzazione si contano nell’ordine delle centinaia. I salvataggi in extremis spesso non bastano, sono inutili o forzati. Si gioca sull’orlo del baratro.

Le penalizzazioni piovono come temporali d’autunno. I contenziosi in tribunale sono infiniti. E allora è la stessa Serie C che chiede ingressi più severi. Marani ha avviato una stagione di riforme: mutualità aumentata, controlli più rigidi in fase di iscrizione, un nuovo prodotto televisivo (Serie C Now), e un piano di rilancio culturale del campionato. Basterà?

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