Il settimo anno, in questo caso, non è quello della crisi. Il settimo anno, la settima stagione di attività nel caso della Juventus Next Gen, la seconda squadra bianconera, è quella che, nei suoi prodromi, spiega meglio di tutte il progetto, un progetto passato all’incasso.

Letteralmente: circa 90 milioni, mal contati, di cessioni da giocatori che da lì sono partiti come professionisti (e magari hanno anche poi trovato spazio in prima squadra e pure in prestito altrove in A: Soulé, Huijsen, Iling Junior, Barrenechea, De Winter), oltre a una presenza costante ed estremamente produttiva nelle prime due giornate della nuova Juventus di Thiago Motta, quella dei protagonisti imprevisti, come Mbangula e Savona, e di quelli comunque attesi, tipo Yildiz. Che poi gli arrivi di Gonzalez, Conceição e Koopmeiners possano ribaltare le attuali gerarchie è più che una probabilità, intanto però, ai fini dell’immagine proiettata e del racconto che ne deriva, dati e numeri questo dicono, e sono incontrovertibili.

In effetti è tutto meraviglioso, per la Juventus, e viene abbastanza intuitivo capire le mire di chi ne ha seguito le orme, Atalanta e Milan, e i rimpianti di un un club che, come il Sassuolo, è costretto a rimandare un passo al quale era vicinissimo a causa della retrocessione (sarebbe stato il prossimo, ma i club di B non possono creare una seconda squadra e, senza certezze sul ritorno in A, il progetto ha subito un inevitabile stop).

Una miniera 

Kaio Jorge (foto Epa)

Che siano una miniera per chi può averle, le seconde squadre, è insomma un dato di fatto: i club possono gestire ragazzi che non verrebbero rivalutati allo stesso modo in prestito altrove (perché non pienamente sotto controllo) e, se non ci sarà per questi un futuro in prima squadra, saranno comunque, poco o tanto, plusvalenze reali che corrono.

Che le seconde squadre servano al movimento, in generale, è già più discutibile. Con il recente debutto di Milan Futuro, ora che è presente una seconda squadra per ognuno dei gironi di Lega Pro, la cornice merita un approfondimento, anche perché andrebbe ricordato che resiste, nei campionati professionistici italiani, anche un caso di multiproprietà, quello che vede la Filmauro della famiglia De Laurentiis controllare sia il Napoli che il Bari, e proprio questi erano i due modelli che, sette anni fa, si contrapponevano. Non per il futuro del calcio italiano in sé, sia chiaro, ma per il più canonico degli obiettivi di un ceto neoliberismo calcistico, ovvero l’aumento delle distanze tra l’élite e chi sta più in basso.

Ora, la Lega Pro, dal punto di vista economico ci guadagna qualche spicciolo, e non è da buttare. I maggiori introiti arrivano anche da costi di iscrizione più alte rispetto alle altre società, di fatto un contributo sociale, diciamo così (e i club controllanti vorrebbero si abbassasse, abbastanza senza vergogna), e da un’occasione di immagine che altri contesti non possono garantire, ovvero la possibilità che, nel corso della stessa annata, vi sia qualche elemento che dalla C passa direttamente in A e in C possa tornare, a patto di non avere superato un certo numero di partite.

Si tratta di un elemento che aggiunge curiosità e attrattività al torneo, senza contare i casi come quello di Kaio Jorge che, anche solo per una manciata di incontri, di rientro dall’infortunio poté scendere in campo con la Next Gen bianconera, in una C laddove non avrebbe mai e poi mai giocato in altre situazioni.

Poca partecipazione 

A livello di pubblico sugli spalti, non c’è di fatto miglioramento. Se è vero che l’esperienza della Juventus Next Gen è stata ed è accompagnata a macchia di leopardo dalle contestazioni filosofiche di tifoserie storiche che contestano la presenza di una seconda squadra in luogo di una rivale storica, e che la cosa ha riguardato un po’ meno quella dell’Atalanta, ma sicuramente accadrà con Milan Futuro, va però rilevato che per la sostenibilità della terza divisione certe presenze sono una manna.

La storia recente è piena di fallimenti e radiazioni anche a campionati in corso, un aspetto sempre a rischio a certi livelli, un aspetto che però non riguarda le seconde squadre. Mancheranno di storia, in qualche misura alterano la competizione, ma alimentano la sostenibilità. Anche per questo, rispetto alla contrapposizione iniziale con le multiproprietà, escono vincitrici, e accade anche a livello di tifo.

Chiedere a Bari – ma il discorso lo si sarebbe potuto fare anche per la Salernitana di Lotito, a lungo – per conferme: quando Aurelio De Laurentiis, alcuni mesi fa, si riferì al club pugliese parlandone come «la nostra seconda squadra», costrinse il figlio Luigi dovette correre ai ripari bollando le parole del padre come «cazzate», provocando il definitivo strappo con città e della tifoseria, già al limite della sopportazione.

Perché sì, è vero che Filmauro ha riportato il Bari almeno in B, è vero che non ha lesinato investimenti, ma il rapporto di vassallaggio, ben visibile nei casi relativi a Cheddira, Caprile e Folorunsho, in qualche modo ricalca quello che esiste tra una prima e una seconda squadra,con la differenza che un tifoso magari può accettare, mal sopportandola, la presenza di una rivale nata dal nulla, ma fatica a subire l’idea di essere un giochino nelle mani di qualcun altro, perché l’identità conta. Detto questo, la scadenza del regime che permette le multiproprietà, inizialmente prevista per il 2024, è stata prorogata dalla Figc di Gravina al 2028-29, un favore rispetto allo status quo, ma comunque la conferma che quest’ultimo modello, rispetto alla dicotomia di qualche anno fa, non ha futuro.

Obiettivi di lungo periodo 

Questo non significa necessariamente che ce l’abbia quello delle seconde squadre. Il sistema calcistico italiano le ha scoperte e volute molto più tardi rispetto a federazioni nelle quali sono un’istituzione, e comunque per valutarne aspetti positivi e negativi, luci e ombre, serve qualche anno e, se oggi con la Juventus trarre un primo bilancio è possibile, di qui a un triennio anche le esperienze di Atalanta e Milan consentiranno, in una visione di insieme, di valutare l’impatto sul movimento.

L’inghippo è proprio qui: sul movimento, non sulla singola società capofila, perché per questa, appunto, quale che sia, il gioco vale per forza la candela. E il movimento, così, non si scoprirà mai più democratico, ma solo più elitario, e non è neppure detto che ottenga benefici nell’ottica delle nazionali, considerando che una parte non irrilevante dei calciatori registrati attualmente per le seconde squadre non è eleggibile per l’azzurro.

Non è un caso: il mercato internazionale dei grandi club, a livello di settori giovanili, è florido, e poter sfruttare in questo senso la possibilità di far esordire tra i professionisti alcuni under stranieri (peraltro con la prospettiva di un andirivieni con la prima squadra) rappresenta per i club un’ottima arma di convincimento per ragazzi cresciuti e maturati altrove. E chi finisce per guadagnarci sono sempre gli stessi. Un obiettivo, questo, estremamente e maledettamente contemporaneo.

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