C’è chi – come Mondo Duplantis – la distanza la cambia in verticale. La disciplina è il salto con l’asta, ma è come se compiendo lo stesso gesto lo svedese disegnasse ogni volta un nuovo e diverso campo di gara. È come se si divertisse ad allungarlo a ogni salto, a mettere a disposizione di chi compete con lui e di chi verrà dopo una differente prospettiva. C’è chi invece accetta di fare i conti con una distanza diversa, nel suo quotidiano gareggiare. Succede per un profondo desiderio di crescere, per ampliare i propri orizzonti, tocca passare dal corto al lungo o viceversa per dimostrare di essere altro, più completi, più perseveranti, più resistenti. 

Il ghiaccio

L’ultima che ha sentito il richiamo della svolta è Arianna Fontana, la più medagliata delle atlete azzurre ai Giochi invernali, la campionessa che è stata sotto i riflettori non solo per i suoi successi nello short track, ma anche per lo snervante duello legale che l’ha opposta ad alcuni colleghi maschi, accusati (ma poi assolti) di averla fatta cadere in allenamento.

In questi mesi, lanciati verso Milano-Cortina, Fontana è al centro di un auto esperimento in fondo anche simbolico: lei che è da sempre artista e tigre della pista corta, dove conta l’intuizione dell’ultimo momento, la cattiveria, saper sfruttare il minimo spiraglio, la capacità di reggere lo scontro fisico senza smarrire la coordinazione, ha intrapreso un cammino sulla pista lunga, il ghiaccio che ospita le gare del pattinaggio di velocità. Dove non si compete in gruppo e per pochi giri, si arriva fino a 5.000 metri, con due sole atlete in pista, in quattro nell’inseguimento, dove l’avversaria non è avversaria ma un punto di riferimento.

La metamorfosi

Il vero villain è il proprio volto che si specchia sul ghiaccio. Bisogna rispettare le tabelle dei tempi, alzare lo sguardo verso il coach che sul rettilineo ti indica come stai andando, non mollare nemmeno per un attimo, soffrire. Se lo short track è il respiro trattenuto dello spettatore, il pattinaggio è il baseball del ghiaccio: lo spettatore gode nell’aspettare, cerca di intuire cosa sta cambiando durante i giri. Due stili diversi di scivolare, un’attività che già di per sé è una metafora dell’esistenza.

Fontana ha esordito in Cina, a Nagano, a inizio dicembre: nei 1.500 se l’è cavata gareggiando nel gruppo B (ventiduesimo tempo) e cadendo invece nell’inseguimento a squadre miste. L’obiettivo è chiaro. Presentarsi ai Giochi dell’anno prossimo per conquistare medaglie nelle due discipline e percorrendo una via opposta a quella compiuta dai figli di Pietro Sighel, il precursore di Enrico Fabris e Davide Ghiotto, i quali presero confidenza con il ghiaccio sull’anello di Baselga di Pinè e poi si sono convertiti al più spettacolare short track.

Per reggere sul lungo bisogna sapersi gestire, forse è necessario essere cresciuti. Se Arianna Fontana è guidata anche dall’aspirazione di entrare ancora più a fondo nella storia olimpica (a gennaio si dedicherà comunque alla sua disciplina d’origine: ci sono gli Europei a Dresda), non si può non notare che cimentarsi con un passo diverso rappresenta il segno di un cambiamento anche interiore, specie nella nostra epoca di progressiva rimozione del tempo che passa.

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Il tennis e l’atletica

C’è chi non ci riesce. Sulla distanza lunga, nel tennis, Alex Zverev, ha mancato sempre il grande obiettivo. Il tedesco ha dimostrato di essere in grado di migliorare i colpi (il servizio) e di superare quelli del destino (la rottura della caviglia a Roland Garros). Ma fino a oggi non ha mai conquistato un titolo dello Slam, i tornei che si giocano al meglio dei cinque set e non dei tre come il resto del calendario. È arrivato metaforicamente due volte a Roma ma non ha mai visto il Papa (in finale al Roland Garros e all’Australian Open). Il suo passo deve ancora assumere quella cadenza anche mentale che serve a sollevare uno di quattro trofei più pesanti.

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Aveva motivi differenti Caster Semenya, quando aualche anno fa dovette cambiare la distanza della sua corsa. Oggi è impegnata a proporsi come avversaria di Sebastian Coe alla presidenza di World Athletics (elezioni nel 2027), forse anche perché Coe la costrinse al passo lungo, a spostare la sua attività dagli 800 e i 1.500 ai 5.000 metri. Accadde quando la federazione internazionale stabilì che nel mezzofondo non si potesse gareggiare con i suoi livelli naturali di testosterone. Il tentativo non andò a buon fine. Semenya mancò la qualificazione olimpica per Tokyo, il passaggio da un “lungo” a un “super lungo”. 

Il ciclismo

C’è chi si accorge a un certo punto del cammino che il breve non basta più. Non è dimenticato o chiuso nel cassetto dei ricordi, ma deve trasformarsi in concime per qualcosa che non sia compreso nello stretto perimetro dello sforzo esplosivo. Pietro Mennea provò i 400 metri. Pippo Ganna lo ha annunciato proprio poche settimane fa: la sua avventura in pista è finita, o quasi. Il bronzo di Parigi nell’inseguimento resterà l’ultima medaglia olimpica conquistata sulle doghe in legno dell’ovale. Il futuro è su strada, quella che gli ha già consegnato l’argento a cronometro sotto la Tour Eiffel. Magari su quelle strade che conducono alla Cipressa e al Poggio, le due impannate su cui si decidono i destini della Milano-Sanremo.

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Una classica monumento che è il simbolo della capacità di attesa, di elaborazione della fatica, dell’attitudine a restare più freschi di tutti gli altri proprio quando la freschezza nella testa e nelle gambe potrebbe venire meno. Capiterà di vederlo ancora, ma niente Mondiali, niente coppa del Mondo: il tempo passa e l’esigenza interiore si fa sempre più forte: provare a vincere su un terreno diverso, probabilmente percepito come più impegnativo. Se il breve è l’adolescenza, la giovinezza nel senso anche più chimico del termine, il lungo è la maturità, il terreno su cui si deve dimostrare l’attitudine al cambiamento, la capacità di portare a termine progetti più grandi o almeno diversi.

Nello sport contemporaneo che affolla i calendari e cerca nuove strade per catturare un pubblico nuovo, succede pure che non siano gli atleti a decidere di cambiare. Succede che ti cambiano le distanze sotto i piedi. Per restare attuali, per non farsi superare. È il caso della marcia, dove dal 2026 la 20 km prenderà le sembianze della mezza maratona, diventerà dunque una gara di 21,097 km, mentre la 35 km, che aveva a sua volta sostituito la 50, troverà una stabilità a metà strada, proprio sulla leggendaria misura dei 42,195 km. Un modo per facilitare la definizione linguistica delle gare, per aggiungere interesse a una disciplina complessa. Aveva ragione alla fine Fiorella Mannoia, quando prendeva atto con una certa dolenza: come si cambia, per non morire.

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