C’è una sola cosa più forte dello slalom fra i cantieri del Giubileo e le mille trappole del traffico di una capitale così complicata: il fascino di Roma. Anzi, il fascino di Roma vista e vissuta correndo. Se n’è avuta dimostrazione domenica scorsa con l’arrembante debutto della Rome Half Marathon, la mezza maratona battezzata da 13.573 podisti arrivati al traguardo. Fra questi il 60,75 sono stati stranieri.

Una percentuale incredibile, il segno di un successo. E così sono rimasti tutti contenti: gli organizzatori di RCS Sport e Bancari Romani, gli amministratori di Roma Capitale, sindaco Gualtieri e assessore Onorato in testa, che hanno sposato in pieno il progetto. L’ambizione, neanche troppo nascosta, è quella di bussare presto alla porta delle cosiddette Superhalfs, le mezze maratone d’autore inserite nel circuito top del calendario: Lisbona, Cardiff, Praga, Berlino, Copenaghen, Valencia, L’effetto cartoline romane, la partenza dal Circo Massimo, il passaggio ai Fori e a Piazza Navona, l’arrivo dove ti aspetta la vista del Colosseo, è una calamita immortale.

Eppure, la medaglia ha un suo rovescio. Il running italiano non se la passa benissimo. Almeno su un fronte: la partecipazione femminile.

Le cifre

Domenica a Roma, sempre tenendo come base il numero di arrivati, le donne sono state il 40,93 per cento. Ma se scomponiamo questa cifra, viene fuori che fra gli italiani la percentuale scende al 22,32, mentre in quella straniera sale al 52,94. Insomma, all’estero, la donna sta superando l’uomo in diversi pezzi di mondo, in Italia siamo inchiodati a un ritmo di poco più di un quinto della torta. Negli Usa questo sorpasso è ormai realtà: fra gli arrivati statunitensi dell’ultima maratona di New York, le donne hanno staccato gli uomini – 15655 rispetto a 14985 – e vedremo domenica 3 novembre quali saranno i nuovi rapporti di forza.

Intanto domenica, il dato statunitense è stato schiacciante sulle strade romane, 242 arrivate e 156 arrivati. «Però aspettate  – ci dice Gabriella Stramaccioni, maratoneta azzurra di fine anni ‘80 e poi in prima linea con un impegno fra sport, carceri e scuole – il problema c’è, peraltro la concorrenza di altre discipline è sempre più forte. Però credo che la fotografia di domenica scorsa sia condizionata dal fatto che fra gli stranieri in tanti siano venuti in coppia per vedere Roma unendo mezza maratona e visita turistica vera e propria». 

Forse è vero. Le percentuali femminili crescono quando si corre all’estero, e questo vale anche per le italiane. Per esempio nell’ultima maratona di New York sono state il 28 per cento, qualche punto percentuale in più persino di quanto succede in una 10 chilometri in Italia. Insomma, la distanza, tranne per il confronto con gli Stati Uniti, forse non è abissale. Ma c’è e si vede. Altri confronti ci danno l’idea di quanta strada ci sia da fare e di quanto in diversi luoghi del mondo se ne sia fatta molta di più.

ANSA

La lezione di Grete Waltz

È passato davvero tanto tempo da quando in una delle prime maratone di New York comparve al Central Park quella che sarebbe diventata la regina delle Grande Mela, la norvegese Grete Andersen Waitz. Fu il primo dei suoi nove successi quello del 1978. Al suo arrivo non si fece quasi caso.

Tanto che Grete, così si racconta, andò in albergo e incrociando alcuni amici raccontò: «Mi hanno detto che sono arrivata prima e ho fatto il record del mondo». E pensare che alla prima proposta del marito-allenatore Jack di allungare fino alla maratona (lei correva in pista e nel cross) aveva risposto: «Assolutamente no».

E vinse, e rivinse, e stravinse. È morta nel 2011, ma il suo mito resiste e una statua la celebra davanti al Bislett di Oslo. Domenica, seppure in una “mezza”, le sue connazionali hanno scavalcato gli uomini per numero di arrivati: 107-91. Stesso discorso per Svezia, Gran Bretagna, Danimarca, Polonia, Germania, Repubblica Ceca. Tra i francesi, il secondo gruppo dietro gli italiani nella classifica per nazionalità, è finita quasi pari: 568 uomini e 565 donne. Ecco perché quel 22,32 per cento Italiano un po’ spaventa.

Paola Pigni

Anche l’Italia ha avuto la sua Grete Andersen Waitz. Pure in anticipo, primi anni ‘70. Successe quando una ragazza che stava studiando fu distratta dalla voce di uno speaker che raccontava delle gare di atletica in svolgimento nella vicina Arena di Milano. Si chiamava Paola Pigni e fu attratta da un irresistibile desiderio di andare a guardare. Cominciò dalla velocità e passò pure una volta per la maratona.

Solo tre anni prima, Katrine Switzer era stata aggredita da un giudice che gridava «non puoi farlo» mentre correva a Boston sulla mitica distanza dei 42 chilometri e 195 metri. Il tutto negli Stati Uniti del sorpasso di oggi. In Italia, Paola frantumava record, vinceva i mondiali di corsa campestre e pure una medaglia di bronzo alle olimpiadi di Monaco 1972 nei 1500 metri.

Soprattutto diceva: «Proviamoci». In tempi in cui una circolare del ministero della Sanità (allora si chiamava così) sconsigliava le gare di corsa lunga alle donne. Paola se n’è andata poco tempo fa e ha visto i progressi pazzeschi di tante italiane. Il titolo della bellissima biografia che le ha dedicato Sergio Giuntini, Liberarsi correndo, dice tutto. Eppure in Italia l’avanzata si è come fermata sul confine e non riesce ad andare avanti.

Il sud

«È un problema culturale e al sud si avverte anche di più – racconta dalla Barletta di Pietro Mennea la runner-testimonial Mariella Di Leo, maratoneta giramondo appena tornata da Chicago e già pronta a ripartire per New York  – Lo sapete che ci sono società amatoriali che non hanno neanche una donna iscritta?

Quando io dico “perché non vi iscrivete?” incontro questa risposta: “Perché non vogliamo essere giudicate”. Purtroppo questo succede nel mondo femminile: sei giudicata per tutto quello che fai, se corri, se ti metti la minigonna, se ti trucchi. È solo una questione culturale, non è un fatto fisico. Bisogna fare qualcosa: ci sono tante donne che camminano, che corricchiano, ma non vanno più avanti, non si iscrivono, non gareggiano, non fanno gruppo».

Contro i pregiudizi

Lisa Magnago vive a Roma ed è da anni un volto noto del running con più di 200 maratone sulle gambe: «In Italia le donne purtroppo hanno meno tempo in quanto si prendono cura della famiglia più degli uomini e il tempo libero da dedicare allo sport è poco». Ma l’analisi non si ferma qui: «Ci sono ancora molti pregiudizi e tanto maschilismo. Faccio un esempio: molte aziende non aiutano la pratica sportiva perché non dispongono di armadietti o spogliatoi e non vedono di buon occhio chi fa sport nella pausa pranzo».

A Foligno, in Umbria, hanno provato a reagire. «È nata questa abitudine di allenarci insieme – spiega Cristina Narcisi della Winner, la società che ha avuto l’idea – ci si vede alle 6,15 del mattino. Il martedì, il giovedì e il sabato. Hanno diritto di cittadinanza tutte le andature. Si fa gruppo, in qualche caso si diventa pure amiche».

Ora New York. Gli italiani saranno tanti, in genere siamo secondi come numero di arrivati dietro i padroni di casa. Anche molte italiane. Eppure durante l’anno la corsa al femminile in Italia sembra perdere pezzi e occupare livelli di partecipazione troppo piccoli, lontani anche da quel 40 (uomini)-30 (donne) per cento di pratica sportiva “continuativa” o “saltuario” immortalato dall’Istat. “Liberarsi correndo”, tanti anni dopo Paola e Grete, in molti casi è ancora un traguardo da conquistare.

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