Se vincerai il concorso, dovrai pagare per lavorare. Nel distopico pianeta Scuola può accadere anche questo. Ed è quello che accadrà, in effetti, ai vincitori del concorso straordinario ter, il cosiddetto concorso docenti Pnrr, indetto a dicembre 2023, con i fondi per il Piano nazionale di ripresa e resilienza, ancora in corso di svolgimento in molte regioni.

C’è soltanto una categoria di vincitori, infatti, che avranno subito il contratto a tempo indeterminato, con conferma in ruolo dopo il superamento dell’anno di prova: i docenti già in possesso dell’abilitazione. Al concorso, però, è stato ammesso anche chi ha soltanto 24 crediti formativi universitari (cfu) sui 60 previsti dalla normativa, oppure tre anni di servizio (equiparati a 30 cfu).

Costoro, prima di avere un contratto a tempo indeterminato, dovranno conseguire l’abilitazione, pagando per ottenere i cfu con i percorsi abilitanti, e avranno soltanto un anno di supplenza. Pur avendo vinto un concorso per ottenere la cattedra, quindi, resteranno ancora precari.

È così che «il Pnrr aiuterà a sostenere la ripresa dell’economia», secondo quanto proclamato dal governo? Di sicuro aiuterà l’economia delle università, che hanno già attivato i percorsi abilitanti per conseguire i cfu mancanti. Per ottenere i 36 o i 30 cfu necessari, i vincitori di concorso dovranno pagare 2.000 euro, in media, per iscriversi. Non è forse un inganno, con beffa, quello per cui il vincitore di un concorso, atto a dimostrare la sua abilità nell’insegnamento, deve pagare un percorso abilitante? Le università italiane, che sono i luoghi in cui gli scienziati ricercano e insegnano con Vico ad «accertare il vero e inverare il certo», come possono concorrere a realizzare questo inganno?

Se si considera che nel mercato dei cfu si sono gettati istituti privati, spesso telematici, e tutti gli enti formativi accreditati dal ministero dell’Istruzione, le università, soprattutto pubbliche, non agiscono contro i propri stessi interessi, alimentando questo business?

L’ordine invertito

Il rettore dell'Università per stranieri di Siena, Tomaso Montanari

Secondo il rettore dell’Università per Stranieri di Siena (UniStraSi), Tomaso Montanari, da noi interpellato, «l’avvio del nuovo sistema di formazione iniziale avrebbe dovuto precedere il concorso Pnrr, ma per una serie di ritardi, dal decreto attuativo all’accreditamento, l’ordine, che prevedeva prima l’abilitazione, poi il concorso per la cattedra, è stato invertito per salvare l’accordo legato al Pnrr: inserire nella scuola docenti abilitati con il nuovo sistema. Così chi adesso vince il concorso, dovrà poi, una volta chiamato in ruolo (non in questa prima edizione dei nuovi percorsi abilitanti), fare un corso abilitante di 30 cfu, a sue spese. Ma questi corsi per vincitori di concorso ancora non sono attivati, né all’UniStraSi né altrove. Quando sarà il momento valuteremo».

Va precisato, tuttavia, che chi sta partecipando al concorso, per paura di non vincere nonostante ottimi risultati allo scritto, si deve comunque iscrivere ai corsi esistenti, che sono a numero chiuso, per timore di restare fuori.

«Più in generale – continua Montanari –, se le università pubbliche decidono di non concorrere e si ritirano sdegnate (e avrebbero ottime ragioni per farlo) lasciano la scuola proprio nelle mani delle telematiche e delle accademie del lusso: la resa totale del pubblico. La nostra scelta intende proprio contrastare il mercato dei Cfu, proponendo corsi di formazione veri, e non balzelli vuoti. La stortura grave, imperdonabile, è nell’assenza di investimento pubblico su questi corsi, che devono autofinanziarsi con le quote di iscrizione dei partecipanti. Sta qui lo scandalo vero: sappiamo bene che della scuola non importa molto a nessuno, nelle stanze del potere. In Toscana le università hanno fatto un accordo per una quota di iscrizione inferiore rispetto a quella indicata nel Dpcm. Non è sufficiente, lo sappiamo, e stiamo studiando modi efficaci per “restituire” almeno pare di quel valore ai docenti iscritti».

Proteste e ricorsi

Questo concorso non abilitante rischia di riproporre quanto accaduto con il concorso straordinario del 2020, per cui nel 2022 il ministero, su pressione dei sindacati, ha dovuto riconoscere l’abilitazione a chi lo superò. All’origine del paradossale concorso Pnrr c’è una deroga: rispetto alla normativa, in effetti, questo concorso ha consentito la partecipazione anche a determinate tipologie di non abilitati, mentre la norma prevede l’abilitazione quale requisito di accesso al concorso.

Sono già nati gruppi e gruppetti, in rete, per confrontarsi sulla situazione e concordare iniziative comuni. Nei social ce ne sono vari di informazione e confronto sul concorso 2023. Anche quelli neonati raggiungono in breve centinaia di iscrizioni, come il Movimento Esp – Educazione senza prezzo, che in dieci giorni ha superato i seicento iscritti su Telegram e oltre mille e trecento follower su Facebook. A distinguerlo dagli altri è l’obiettivo di creare un sistema di formazione equo, da perseguire con tanto di manifesto programmatico in cinque punti, in cui si chiede, fra l’altro, che i percorsi abilitanti siano rivisti, in modo da garantire accessibilità e pari opportunità, e che i concorsi siano abilitanti e gli idonei inseriti nelle graduatorie di merito.

Anche i sindacati di base e confederali sono intervenuti per evidenziare le criticità del concorso Pnrr: gli argomenti della prova scritta, passata dai vincitori, sono gli stessi da studiare nel corso abilitante da 30 cfu; vincendo il concorso il “premio” è un altro anno di precariato; il costo dei percorsi abilitanti è ingente e non tutti possono permetterselo; i precari non hanno avuto permessi retribuiti per partecipare al concorso; non è stato risolto il problema dei candidati idonei, precari da anni, inseriti nelle graduatorie del concorso ordinario del 2020.

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