Per i 234.576 docenti con contratto a tempo determinato si apre la stagione della Naspi, mentre aggiornano il curriculum e inviano le messe a disposizione. E in attesa degli stipendi arretrati, cercano di capire come sono cambiate le regole che determinano la loro stessa precarietà
Mentre per milioni di studenti l’ultima campanella dell’ultimo giorno di scuola segna l’inizio delle lunghe vacanze estive, per il docente precario quel trillo seguito dalle urla dei ragazzi ha un solo e unico significato: l’inizio della disoccupazione.
Come il masso di Sisifo che inesorabilmente precipita a valle, il precario della scuola dall’8 giugno (o dal 30, se è più fortunato) sa che dovrà ricominciare, da capo, a spingere.
I primi metri sono quelli che separano la scuola in cui ha prestato servizio – spesso a chilometri di distanza dalla sua residenza – e il Centro per l’impiego regionale. È in questo ufficio che dovrà firmare il patto di servizio dopo aver richiesto la Naspi. A quel punto, tendenzialmente, ha già salutato tutti i suoi alunni. Ha già spiegato loro che forse a settembre non si rivedranno, che lui avrà una nuova classe e loro un nuovo docente. Probabilmente precario anche lui, ça va sans dire. Chi rivedrà o risentirà molto presto, invece, è il personale della segreteria dell’istituto, per chiedere aggiornamenti in merito agli stipendi arretrati, anche nel 2024 in ritardo di 4 mesi rispetto alla presa di servizio.
E così, tra lo stipendio che tarda ad arrivare, la Naspi non ancora approvata e l’ansia di non trovare una scuola per settembre, il precario spingerà il masso verso tutti i siti delle scuole d’Italia, e invierà le messe a disposizione. Almeno fino a quest’anno, in cui per la prima volta entrerà in funzione il sistema, per ora oscuro, dell’interpello.
Intanto, per pagare l’affitto di una stanza nella città del nord che non si può permettere e il Percorso formativo abilitante da 60 Cfu, si reinventerà educatore in un centro estivo o cameriere come ai tempi dell’università. Poi, tirerà a lucido il suo curriculum e il profilo Linkedin, specificherà di aver già ottenuto i 24 Cfu in tempi non sospetti, aggiornerà le graduatorie provinciali e valuterà suo malgrado di candidarsi in qualche scuola privata. Altro che vacanze, altro che punizione divina.
La normalizzazione dell’ingiustizia
Perché il nostro Sisifo-precario non è un personaggio mitologico, nonostante in troppi sembrino ignorarne l’esistenza. Sono infatti 234.576, su un totale di 943.680 docenti in servizio, gli insegnanti precari. Significa che un docente su quattro lavora a tempo determinato, non ha accesso a scatti di stipendio, non ha garanzie occupazionali. Con ciò che ne consegue a livello didattico ed economico.
Ma nonostante uno su quattro docenti dei nostri figli siano precari, la loro condizione è normalizzata e invisibile. Si nascondono nei non detti degli articoli che periodicamente raccontano con espressionistico stupore quante cattedre saranno scoperte a settembre, condividono aule e corridoi con docenti a cui sono equiparati a livello di mansione ma non a livello di diritti, attendono con ansia concorsi che spesso si ritrovano a sostenere più volte nonostante siano già risultati idonei in quelli precedenti.
E se in otto anni sono più che raddoppiati, questo non è effetto collaterale di una burocrazia che arranca e di un sistema di reclutamento tra i più accidentati d’Europa, ma conseguenza di una precisa politica di precarizzazione della scuola.
Che il problema sia istituzionalizzato e strutturale, del resto, lo dimostrano gli interventi ministeriali che mirano a tamponare i danni e non a eradicare il fenomeno, come la possibilità per le famiglie di alunni con disabilità di richiedere lo stesso insegnante di sostegno precario per l’anno successivo. L’obiettivo è garantire continuità e stabilità educativa, in teoria. Che queste siano raggiungibili agevolando l’immissione in ruolo dei docenti e offrendo l’accesso libero al Tfa, il ministero non deve averci pensato.
Anche le regole sono precarie
Intanto, sperando che al suo posto non subentri qualcun altro, il docente precario, tra Naspi, co-co-co, Gps, Gae e altre sigle infernali, spera a settembre di venire richiamato nella stessa scuola, perché davvero, lui sì, vorrebbe garantire ai suoi alunni la continuità didattica.
E poco importa se nel frattempo non sa se rinnovare il contratto d’affitto perché non ha certezze sulla provincia in cui lavorerà (e a volte nemmeno sulle materie che insegnerà), non sa se aver passato l’ennesimo concorso sarà sufficiente a ottenere l’agognata cattedra, e fatica anche a decriptare le sigle e a capire i nuovi criteri di selezione, in una complessità gratuita e mutevole che rende ancora più precaria la sua condizione. Perché la precarietà non consiste solo nel non sapere se e quando tornerà a lavorare, ma nel non sapere nemmeno quali regole disciplinino la sua stessa condizione precaria.
Ma a questo punto è ormai da diverso tempo che si raccapezza tra nuovi decreti e vecchie ingiustizie di classe (sociale, non scolastica), e sa che non saranno i numeri che crescono a portare l’attenzione sul tema. Perché pur essendo a conoscenza di condividere questa condizione con il 24% del totale degli insegnanti secondo i dati del 2023, sa che questa non è una storia di numeri.
È la storia di Sara Nisoli, che d’estate lavora con contratti di collaborazione coordinata e continuativa (i cosiddetti co-co-co) con scuole che le fanno sapere di settimana in settimana se verrà richiamata. È la storia di Francesco Tola, che da luglio fa il cameriere in Sardegna per arrotondare. È la storia di Miriam Fragomeni, che nonostante abbia passato l’ultimo concorso con un punteggio di 97/100 all’orale e 94/100 allo scritto, non sa se verrà chiamata e soprattutto non sa in quale provincia della Lombardia insegnerà. È la storia di Arianna Cavigioli, convocata un pomeriggio di ottobre con presa di servizio il giorno dopo in un’altra regione. È la storia di Simone Coletto, che nei mesi di interruzione si trasferirà nel paese dell’hinterland milanese in cui ha prestato servizio perché nelle scuole di provincia ci sono più cattedre vacanti che in città. È la storia di Giacomo Trentini, che non sa se spendere 2500 euro per poter prendere i nuovi 60 cfu obbligatori dal 2025.
Ma è appunto una storia, e non il mito di Sisifo. E quindi può essere cambiata.
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