I dodici migranti detenuti in Albania devono essere rimessi in libertà, e per farlo devono essere portati in Italia. Così i giudici del tribunale civile di Roma non hanno convalidato il trattenimento degli otto cittadini bengalesi e dei quattro cittadini egiziani, che sono stati trasferiti dalle acque al largo di Lampedusa alle coste albanesi lo scorso mercoledì, e hanno disposto la loro liberazione.

Una decisione, fa sapere il tribunale in un comunicato stampa firmato dalla presidente di sezione, Luciana Sangiovanni, in applicazione dei principi stabiliti dalla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 4 ottobre, «vincolanti per i giudici nazionali e per la stessa amministrazione».

Lo ha ricordato anche il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia che, intervenendo a Tagadà, ha sottolineato che «i giudici applicano le norme» e che l’Italia è «parte integrante» dell’ordinamento europeo. Ma al governo non sta bene e, mentre alcuni esponenti della maggioranza accusano i giudici di essere «pro-immigrati» e piegare le decisioni «alle loro convinzioni politiche», il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi annuncia il ricorso in Cassazione contro questi decreti perché «si nega il diritto del governo di attivare procedure accelerate».

Le motivazioni

Ma, secondo quanto scrivono i giudici nei decreti di non convalida del trattenimento, il diritto del governo non può essere considerato superiore all’ordinamento europeo. E Bangladesh ed Egitto non possono essere definiti «paesi sicuri». È il nodo centrale delle dodici decisioni, che richiamano la sentenza della Corte europea secondo cui un paese non può essere considerato «sicuro» se non lo è nella sua interezza o per alcuni gruppi di persone. È poi dovere del giudice, si legge, valutare nel caso specifico la qualificazione e rilevare «l’eventuale violazione».

Gli stati di origine dei detenuti in Albania sono stati aggiunti all’elenco dei paesi sicuri lo scorso maggio e coincidono con le maggiori nazionalità di arrivo sulle coste italiane. Ma sono le stesse schede paese del ministero degli Esteri, come raccontato da Domani, a prevedere eccezioni per alcune categorie o porzioni di territorio. E, da una loro lettura, ci si chiede come in alcuni casi un gran numero di eccezioni segnalate non mettano in discussione la designazione a paese sicuro.

Tornando ai decreti del tribunale, l’Egitto «è definito paese di origine sicuro ma con eccezioni per alcune categorie di persone: oppositori politici, dissidenti, difensori dei diritti umani o coloro che possano ricadere nei motivi di persecuzione», si legge. I giudici citano l’istruttoria del ministero degli Esteri, che in un accesso agli atti di Asgi teneva a precisare come l’aggiunta del paese di al Sisi fosse seguita a una «specifica richiesta del ministero dell’Interno».

Allo stesso modo, il Bangladesh, sempre secondo le schede del Maeci, è definito sicuro «con eccezioni per alcune categorie di persone: appartenenti alla comunità Lgbtq+, vittime di violenza di genere incluse le mutilazioni genitali femminili, minoranze etniche e religiose, accusati di crimini politici, condannati a morte, sfollati climatici».

Se la definizione del paese cambia, scrivono i giudici, manca quindi il presupposto per applicare le procedure accelerate di frontiera, che prevedono meno garanzie, tempi ristretti e una buona possibilità che la propria domanda di asilo venga rigettata perché, secondo le valutazioni ministeriali, la situazione del paese sarebbe tale da presumere che le richieste di protezione internazionale non siano fondate.

La domanda di asilo

Non sorprende che le richieste di asilo presentate da tutte e dodici le persone recluse in Albania siano state respinte dalla Commissione territoriale di Roma. Ciò che sorprende però è la tempistica. Alle 8.30 di stamattina ai migranti è stato notificato il respingimento della loro domanda di asilo, con una rapidità che, secondo il collegio difensivo di uno dei cittadini egiziani, formato da diversi avvocati di Asgi, non è propria della commissione territoriale. Non è mai accaduto nei casi che hanno seguito, nonostante si applicassero procedure accelerate.

Ancora prima che si decidesse se fosse o meno legittimo il loro trattenimento nella struttura di Gjadër, si è deciso sul loro diritto di protezione internazionale, con audizioni fatte in fretta e furia in meno di 24 ore. «Ritengo assurdo aver operato una procedura così veloce per una persona che aveva già riferito al suo primo contatto con le autorità italiane di essere stato un anno e mezzo in Libia sotto ricatto di una banda armata», ha detto Gennaro Santoro, uno dei legali.

È stata probabilmente un’ultima carta giocata dal Viminale prima delle udienze, per provare a salvare qualcosa dei centri in Albania ed emettere un nuovo provvedimento di trattenimento.

Ritorno in Italia

I giudici però scrivono chiaramente che i dodici uomini hanno diritto «a riacquisire lo stato di libertà personale mediante conduzione in Italia». E a prevederlo è lo stesso protocollo siglato da Meloni e dall’omologo Edi Rama: se viene meno il titolo per trattenere le persone in Albania è l’Italia a farsi carico del trasferimento immediato «fuori dal territorio albanese».

I dodici saranno quindi portati sabato in Italia, al porto di Bari, a bordo di una motovedetta della Guardia costiera. In questo modo i migranti hanno subito un giorno in più di trattenimento. E questo, si fa notare, è illegittimo. Intanto il governo, nonostante tutto, non si arrende.

Meloni, dal Libano, ha annunciato un Cdm lunedì «per approvare delle norme per superare l’ostacolo» amplificando, ancora una volta, lo scontro con la magistratura, accusandola di ingerenze e di essere politicizzata. Peccato che i giudici abbiano solo applicato la legge.

© Riproduzione riservata