A Roma, in via Giorgi, c’è un ristorante kosher che il sabato, anche in estate, apre sempre un minuto dopo il tramonto. Rispetta le regole della comunità ebraica che lo frequenta, ma il suo piatto principale è il sushi con influenze brasiliane. Tra le colline delle Langhe, ad Alba, gli uramaki si fanno con la carne cruda di Fassona piemontese. A Milano, nel 2019, ha aperto il primo ristorante Giappugliese d’Italia e nel 2022 quello di sushi cento per cento vegetale. Ad assistere, silenziosi, all’estremizzazione della sperimentazione, i sempre più numerosi giapponesi autentici, che negli ultimi anni stanno vivendo una nuova vita.

L’approdo in Italia

«I primi ristoranti giapponesi in Italia hanno aperto a Roma, alla fine degli anni Ottanta», spiega Paolo Peri, uno dei soci di Ichikawa, locale milanese che porta la firma del maestro Haruo Ichikawa, pilastro della cucina giapponese in Europa. Mentre Peri racconta, il maestro, dietro al grande bancone a vista del locale, lavora i tagli di pesce per il servizio imminente, lo sguardo concentrato, si sente regolare il rumore del coltello sul tagliere.

«A Milano il primo giapponese è stato Tomoyoshi Endo, vicino alla stazione Centrale» continua Peri. Locale che ha chiuso nell’aprile 2024 e dove anche Ichikawa ha mosso i primi passi, resta un pezzo di storia della gastronomia nipponica in Italia. La svolta fusion è arrivata tra gli anni Novanta e i Duemila. Un’evoluzione gastronomica a cui ha assistito anche Claudio Liu, proprietario dell’Iyo, a Milano, tempio della cucina giapponese “contemporanea”, come lui stesso la definisce, il locale conserva la stella Michelin dal 2015. A quei tempi, in cucina, c’era proprio il maestro Ichikawa. «Nel 2007, quando abbiamo aperto noi, i ristoranti giapponesi a Milano si contavano sulle dita di due mani», dice Liu. La “febbre del sushi”, latente, sarebbe esplosa poco dopo.

Il fenomeno americano

«L’influenza del sushi in Europa è stata in realtà guidata dalla moda americana» sottolinea Sabrina Bai, proprietaria di Kohaku e Shiroya a Roma, tra le più famose insegne di cucina tradizionale giapponese nella Capitale. «Uramaki come il California roll, che ha infinite varianti e visivamente risulta molto sfizioso, si rifà all’interpretazione americana del sushi», continua. Colorati, vari e invitanti, i bocconcini di riso e pesce crudo (o cotto) del Nuovo Continente si contrappongono di molto al concetto di sushi tradizionale giapponese, semplice nella forma e nella sostanza.

Eppure, nonostante la moda americana arrivi in Europa solo dopo l’apertura dei primi locali tradizionali, soppianta quest’ultima nella guida del gusto delle masse. «La cucina fusion in generale è popolare anche perché rappresenta un compromesso per un palato occidentale non abituato ai sapori asiatici» osserva Bai. Una declinazione che sarebbe, dunque, alla portata di tutti, non solo dal punto di vista gustativo, ma anche culturale.

«Nel nord Italia c’è sempre stata una barriera di resistenza nei confronti del pesce crudo, come un qualcosa di pericoloso», dice Paolo Peri. Dunque, il punto di incontro “americanizzato” tra le due sfere di sapori ha contribuito ad avvicinare anche i più scettici e a fare esplodere il fenomeno a tutti i livelli. Ancora oggi, infatti, non tutti conoscono gli l’okonomiyaki, i takoyaki, o il katsu sando, ma gli uramaki, quelli sì.

I punti di contatto

«Il riso è una tela bianca su cui dipingere». Il mantra dello chef Davide Oldani si riferisce al risotto e al potenziale infinito di questo piatto, ma anche il riso alla base del sushi ha dimostrato di avere una valenza simile.

«L’uramaki è una tipologia di preparazione che ti permette di giocare tantissimo: è una foglia d’alga con sopra del riso che a sua volta viene farcito» dice Liu, «un po’ come il pane, sta bene con tutto». Sperimentazioni che hanno dato vita ad abbinamenti nuovi e nel contempo hanno ibridato due delle più grandi culture gastronomiche mondiali: quella nipponica e quella italiana, che secondo Liu non sarebbero poi così distanti.

«Ci siamo accorti, nel nostro percorso di studio, che esistono dei fili conduttori molto sottili che accomunano queste due cucine», osserva il proprietario di Iyo.

Un esempio è l’aspirazione all’umami. «Quella giapponese è una ricerca consapevole, quasi ossessiva, mentre quella italiana è più inconscia, ma molto presente in alcuni alimenti simbolo, come il pomodoro, il parmigiano, il prosciutto crudo».

Per di più, anche la condivisione della stessa fascia equatoriale da parte dei due paesi fa sì che possano contare su una varietà di prodotti abbastanza simile.

La cucina Nikkei

Oltre agli Stati Uniti, anche il Sud America ha partecipato all’esportazione di un tipo di cucina giapponese contaminata. «In Brasile c’è una delle più grosse comunità nipponiche al di fuori del Giappone, così come in Perù», osserva Paolo Peri, «basti pensare che tra il 1990 e il 2000 il presidente (poi dittatore, ndr) è stato Fujimori, che era giapponese». Da questa mescolanza di culture è nata la cucina nippo-brasiliana e quella nikkei, d’influenza peruviana. Entrambe sono state esportate e hanno riscosso notevole successo anche in Italia. «Il primo a proporla qui è stato Roberto Okabe, con il suo Finger’s». L’insegna milanese dello chef giapponese di padre brasiliano proponeva una sintesi estrosa delle due correnti gastronomiche. Un esperimento imprenditoriale in società con l’ex giocatore del Milan Clarence Seedorf. Oggi Okabe cucina al View Live Restaurant.

Nuova consapevolezza

L’esplosione del turismo occidentale in Giappone e un rinnovato interesse, forse più consapevole, verso questa cultura, hanno inciso sulle tendenze gastronomiche contemporanee. Simbolo di una nuova rivoluzione è la vendita di Temakinho, emblema tutto italiano della cucina nippo-brasiliana, che ha spopolato in molte capitali europee dal 2012 in poi.

Dopo la chiusura in perdita di diversi milioni, all’inizio del 2024 la catena di ristoranti è stata venduta a una compagnia tedesca. «L’attenzione del cliente e la sensibilità del palato stanno cambiando, c’è un’inclinazione verso piatti più autentici», osserva Sabrina Bai. Lo conferma anche Claudio Liu, che nel 2019 ha inaugurato Iyo Omakase, «una proposta di sushi tradizionale senza compromessi», come spiega, e che ha da poco avviato un nuovo progetto, Iyo Kaiseki, «la forma più autentica della cucina giapponese imperiale».

L’evoluzione del sushi in occidente ha portato con sé infiniti fattori culturali che hanno mostrato quanto la cucina, in generale, sia sempre lo specchio di fenomeni più ampi, come migrazioni, mescolanze di popoli e gusti radicati nelle abitudini più primordiali.

Se è facile aspettarsi che l’aspirazione all’autenticità, sia essa fattuale o presunta, spazzi via, piano piano, un certo tipo di contaminazioni verso cui sembriamo non avere più interesse, resta da chiedersi quali cibi, ignoti ancora ai più, arriveranno dal paese del Sol Levante.

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