Secondo i dati forniti da The Fork negli ultimi anni in Italia c’è stato un incremento del 17 per cento di aperture di ristoranti asiatici contro un 15 per cento di nuovi locali di cucina “tradizionale”
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Nelle più disparate e attuali narrazioni enogastronomiche spesso il filo conduttore è il legame di un determinato prodotto al proprio territorio. L’alimento che si tende a raccontare è radicalmente compromesso dal suo circostante. Una narrazione che abbraccia un senso di identità nelle produzioni alimentari ma anche nella somministrazione di piatti e bevande diverse. La cucina regionale, tipica, buona, italiana. Questo vuol dire che nella visione di un’Italia che a tavola sembra sempre più autoreferenziale, l’esigenza della tipicità e della demarcazione di profili degustativi “riconoscibili” diventa quasi preponderante. Lo abbiamo visto nel vino fino a qualche anno fa, o ancora nelle produzioni industriali, quelle che inseguono un certo sapore riconoscibile e senza sorprese. Una visione generalista della gastronomia di superficie, quotidiana, che invece incontra una interessante controtendenza rispetto la versione dei fatti fin qui proposta.
Già pubblici da qualche mese, i dati forniti da TheFork in collaborazione con Format Research hanno dimostrato come, tra il 2022 e il 2023, l’incremento in aperture di ristoranti abbia segnalato un +17% di locali asiatici, contro un + 15% di quelli tipici italiani. Un dato che non conferma del tutto – dunque - quella esigenza sociale di sentirsi vicini a qualcosa di noto, ma che bensì sembra sfiorare l’idea che in ambito enogastronomico del nuovo ci si possa non solo fidare, ma affidare. Che forse, del sapore noto si può anche fare a meno. O ancora, che provare a investire in nuove proposte sia una mossa vincente. Tanto che c’è chi del proprio impegno per la cucina asiatica ne ha fatto una questione di vita, come nel caso di Lucio Paciello, che a Napoli – città totem della cucina tradizionale – ha aperto con il socio Rosario Del Priore il primo Noodles Bar della città, Staj.
Una realtà caratterizzata da elementi in sintonia tra la cucina giapponese e quella partenopea, come nelle corde e nella sensibilità di Lucio. Stessa che per lui si esprime in una manifestazione conviviale della tavola ma anche familiare «i nostri ospiti sono napoletani che cercano un menu diverso ma che poi tornano da noi come in un posto di fiducia. Una cucina quasi familiare che si arricchisce di tanto in tanto di esperienze e di consigli, ma anche di novità e casi d’affezione. Quando cucino o immagino un piatto, provo a soddisfare il bisogno di chi ho davanti. Vedere le persone abituarsi è la soddisfazione migliore, ma anche quella più emozionante. Quando poi a tornare sono i turisti della nostra città, anche se per pochi giorni, la gioia è ancora più forte». Staj è quindi una sfida aperta alla città ma anche ai suoi costumi, agli integralismi culinari, senza aggressività con una naturale predisposizione all’accoglienza e alla ricerca.
Non si vuole qui analizzare il dato economico della ristorazione asiatica in Italia, bensì il fatto che da due punti di vista diversi ma non del tutto distanti, l’ambizione di una certa cucina internazionale non sia tanto solo quella della sostenibilità, della sopravvivenza dell’attività in sé, quanto quella di dire qualcosa con un linguaggio universale: la tavola avvicina i popoli e non conosce confini. Un argomento che ben affronta Jun Ge, che nella sua Sinosteria a Roma ha unito alla cucina cinese una vasta scelta di vini artigianali e il cui compito è chiaro ben prima che a dirlo sia lui stesso, in questa osteria dall’incredibile tratto creativo «la mia idea di ristorazione non porta alta la bandiera cinese. Chi viene da noi lo fa per stare bene, per cercare il proprio benessere. Per questo motivo non amo dire che la nostra è una cucina etnica, o etichettarmi come ristorante asiatico, bensì immaginare che da noi ci si possa accomodare per cercare quel senso di buono e di accoglienza di cui la tavola è spesso rappresentazione».
Dalle due esperienze distanti e cittadine, quel senso di unione e non per forza di mera identità lascia spazio al principio sano dell’emotività. Ovvero la capacità per certe cucine e per alcune narrazioni tra cibo e vino, di ampliare l’orizzonte della conoscenza di sé stessi e degli altri. Di dedicarsi alla riscoperta o anche all’assaggio di pietanze diverse da quelle normalmente incontrate nelle famiglie, superando distanze e pregiudizi, ma anche incontrando sapori e storie nuove. Come quelle che ci si racconta a tavola quando si sta bene. Quando il cibo e il vino sono buoni e non corrotti, viziati, distrattori del pensiero. E allora ecco che la ristorazione asiatica vincente in Italia non diventa solo un caso di studio, ma un lasciapassare per altri mondi privi di pregiudizi e confini, dove il commensale ascolta quello che la cucina propone senza freni e preconcetti, donandosi al piatto in uno scambio culturale che sa di urgente attualità «vorrei suggerire ai miei colleghi – continua Ge – di superare il principio del ristorante etnico per approfondire invece il messaggio che certi cibi e alcuni accostamenti suggeriscono. La sostenibilità poi, è un elemento fondamentale di questa cucina che deve essere accessibile a tutti e non elitaria. Comprensibile e aperta, in grado di riportare le persone a una dimensione più concreta e conviviale dove non vi sono etichette e preconcetti, ma tanta umanità. Nella cultura cinese non badiamo molto all’etnia, all’intimità e alle scelte personali di chi abbiamo davanti. Andiamo oltre, siamo tutti esseri umani. Lo stesso principio lo applico nel mio locale. Potrebbe essere un nuovo modo di intendere la cucina e la ristorazione, quello di far stare bene le persone aldilà di cosa si stia proponendo».
Un piccolo manifesto della ristorazione contemporanea che non verticalizza o taglia di netto cucine stellate quanto piccole e familiari, ma che si arroga il diritto di rappresentare l’esigenza collettiva del superamento dei ghetti enogastronomici e dei vincoli identitari. Qualcuno si chiederà della tradizione, del ricordo di un determinato sapore riferendolo alla propria infanzia tracciando quella ricerca di giustificazioni per la paura dell’ignoto. Sono osservazioni giuste in parte, ma non del tutto attuali. Se è vero che la tradizione è un concetto vasto e impervio, è anche vero che il frutto delle nostre cucine identitarie è spesso il risultato di infinite contaminazioni di popoli, prodotti e innovazioni. E che di tipico a volte vi è ben poco. Le testimonianze di Lucio e Jun sulla ristorazione asiatica sono quindi un nuovo modo di narrare l’enogastronomia internazionale, parte di un approccio sensibile ai cambiamenti sociali e più inserito nell’attualità degli eventi. Si può nascere in Italia e avere radici che cercano luce da altri Paesi, che si espandono in larghezza e non in profondità e si può cucinare asiatico senza sentirsi solo cinesi, giapponesi, o napoletani senza sentirsi solo italiani. La cucina ha ancora il compito di salvare la pancia e il pensiero, di parlare al cuore caldo e sincero di chi nella tavola ci crede ancora, come sinonimo di uguaglianza e di opportunità.
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