Uno dei piatti più tipici di Hong Kong è il borscht. Avete letto giusto: quella zuppa rossa, con spesso dei pezzetti di carne e dal gusto un po’ acidulo, è un piatto onnipresente nei ristoranti popolari hongkonghesi, chiamati cha chaan teng (la traduzione letterale sarebbe sala da tè, ma questo dà l’impressione di qualcosa di elegante, cosa che le cha chaan teng non sono e non cercano di essere: pensate a dei diners, non al tè delle cinque britannico).

Ma il borscht era un piatto ucraino, diffuso anche in Russia e in altri paesi dell’Europa nordorientale? Sì. Però è arrivato a Hong Kong per la solita strada con cui così tanto è arrivato qui: ovvero, l’immigrazione. In questo caso, si tratta di un’immigrazione russa, per l’appunto, che avvenne in modo significativo dagli anni Venti fino primi anni Cinquanta: dapprima, si erano riversate a Harbin (nel nordovest della Cina, vicina al confine russo) e a Shanghai circa 300mila persone che volevano sfuggire alla rivoluzione bolscevica.

Quando la Cina riconobbe l’Unione Sovietica, però, nel 1924, ecco che i russi bianchi, come erano chiamati, si ritrovarono di nuovo in una situazione precaria, che divenne insostenibile quando, nel 1949, le truppe del Partito comunista vinsero la guerra civile cinese contro quelle del Partito nazionalista (che si rifugiarono a Taiwan). La popolazione russa rifugiatasi in Cina si spostò nuovamente, questa volta diretta verso l’allora colonia britannica di Hong Kong, dove alcuni avevano intenzione di rimanere, mentre altri l’utilizzavano solo come tappa temporanea.

Una strada obbligata

Ma Hong Kong a tutt’oggi porta nei suoi menù le tracce di questo loro passaggio, con la diffusione di alcuni dei piatti più tipici, fra cui per l’appunto il borscht e anche il pollo alla Kiev, e il manzo alla Stroganoff. Questo perché, in una società stratificata come lo era quella della Hong Kong coloniale, essere rifugiati russi non era visto di buon occhio dai britannici.

Esclusi da molti altri lavori, alcuni di questi rifugiati russi decisero di aprire dei ristoranti, una professione che non apriva le porte della buona società, ma consentiva la sopravvivenza. I sapori insoliti che portarono in tavola hanno lasciato il segno. La regionalizzazione, però, è avvenuta anche qui: provate a far crescere una barbabietola in questo clima subtropicale, e vi renderete conto che è un’impresa disperata. Ecco dunque che il borscht di Hong Kong è stato adattato, passando dal rosso barbabietola al rosso pomodoro, con aggiunta di cavoli, anche se viene chiamato ancora oggi losungtong: zuppa russa.

La storia dell’onnipresente borscht di Hong Kong, malgrado la sua metamorfosi in zuppa al pomodoro, è particolarmente curiosa, ed offre dunque un’immagine perfetta di quello che è la regionalizzazione di piatti che, in questa terra costruita dall’immigrazione, si adattano alle esigenze locali e diventano un po’, o a volte molto, diversi dall’originale. A riprova del fatto che fra “piatto autentico” e localizzazione/regionalizzazione passa l’interezza della storia umana e dei nostri spostamenti, voluti o forzati che siano.

Fare pace tra tradizione e contesto

Se il borscht colpisce per la sua geografia inaspettata, le numerose altre cucine che popolano Hong Kong mostrano che il principio di adattamento regionale resta valido sempre, anche con cucine che provengono da meno lontano. Hong Kong infatti si vanta di essere uno di quei luoghi della diaspora in cui è possibile trovare ristoranti di tutte le varie, e diversissime fra loro, cucine cinesi: ma come sempre accade, con il tempo i gusti si adattano ai palati locali, lasciando chi cerca “l’autenticità” (che è poi spesso un mito) pronto a criticare tutto.

Prendiamo ad esempio la cucina Sichuanese, sempre più popolare anche in Italia: piccante, ma resa sorprendente dalla presenza del pepe del Sichuan, una pianta dal nome latino di zanthoxylum simulans, chiamato in Cina huajiao. Non è piccante (in realtà, non è neanche della famiglia del pepe) ma lascia un pizzicore in bocca, rendendo la lingua leggermente anestetizzata: una sensazione dapprima strana, poi deliziosa.

Molti dei piatti sichuanesi sono conditi con un misto di spezie chiamato mala, e cioè peperoncino e pepe del Sichuan. Il risultato può essere anche molto piccante, soprattutto se lo si consuma in Sichuan o a Chongqing. A Hong Kong, molti ristoranti sichuanesi aprono i battenti a tutto fuoco. Poco per volta, però, abbassano le fiamme, dato che i palati locali sono così poco avvezzi al piccante, che i clienti rimandano indietro i piatti chiedendo l’estintore.

Una persona che arriva dal Sichuan ne rimane delusa – la regionalizzazione ha appiattito il gusto, uniformandolo – e capita che si presenti al ristorante con la salsa piccante in barattolo portata da casa. Non succede solo con le spezie: dopo la vittoria comunista nella guerra civile cinese, si riversarono a Hong Kong molte persone da Shanghai (per esempio, la quasi interezza del mondo cinematografico, e quello della moda, sarti inclusi, per non parlare di letterati e artisti).

Shanghai e Hunan

La città era infatti vista come la più borghese e capitalista della Cina, quella in cui le abitudini di vita internazionali avevano allontanato la popolazione dalle tradizioni locali, e le élite temevano dunque le rappresaglie ideologiche del nuovo governo. I piatti shanghaiesi entrati così nel repertorio culinario di Hong Kong sarebbero innumerevoli, a meno che non ci si trovi in compagnia di qualcuno venuto da Shanghai, che avrà da ridire su tutto. Uno dei piatti più comuni è il glutine (che in Cina si chiama kaofu) brasato alla salsa di soia: a Hong Kong, dove è disponibile in praticamente ogni ristorante, si chiama solo così, hongshao kaofu (hungsiu haufu in Cantonese, la lingua che si parla a Hong Kong).

Non vi scappi di chiamarlo così davanti a una persona di Shanghai! Per loro, si tratta solo del glutine alle quattro felicità, dato che viene cucinato insieme a funghi shitake, fiori di giglio essiccati, funghi muer, e noccioline: le quattro gioie di cui sopra. Il piatto in verità è praticamente lo stesso, anche se a Hong Kong è spesso un po’ più dolce, dal momento che qui si usano due tipi di salsa di soia per dare più colore, quella chiara, che è la più diffusa anche in Italia, e quella scura, con aggiunta di caramello, che serve soprattutto a inscurire la pietanza.

La cucina dello Hunan, per fare un altro un esempio dai ristoranti più diffusi a Hong Kong, è più complessa da replicare: è a base di molta carne, con un numero ridotto di spezie e condimenti, dato che quello che conta sono soprattutto le tecniche di preparazione, e le lunghe ore passate in cucina a sbollentare, friggere e brasare uno stesso ingrediente.

Si tratta di nuovo di una cucina regionale piuttosto piccante, in particolare grazie a dei peperoni verdi indiavolati. Nelle cucine di Hong Kong, piccantezza a parte, alcuni passaggi vengono saltati dal momento che, in generale, qui si tende a cuocere maggiormente al vapore, e al wok, evitando di strafriggere. Così di nuovo, ecco che chi dovesse venire da questa regione, portato al ristorante hunanese si lamenta della mancanza di autenticità, davanti a un piatto più digeribile ma dal sapore meno complesso.

La ricerca dell’autenticità

Nel corso delle decadi, però, le varie comunità regionali ritrovatesi a Hong Kong hanno escogitato uno stratagemma per ritrovare certi sapori ben impressi nel palato emotivo, senza correre il rischio che la maggioranza cantonese andasse a stemperarli nel gusto locale: le associazioni di provenienza geografica.

Così, chi è di Shanghai e può provarlo può diventare membro dell’Associazione dei Residenti di Shanghai, un club privato, con cuochi che, culinariamente parlando, non sono mai usciti da Shanghai. C’è l’associazione dei residenti di Ningbo, una città costiera a sud di Shanghai, l’associazione dei residenti di Wenzhou (la città di provenienza della maggior parte dei cinesi che si sono stabiliti in Italia), e varie altre associazioni di residenti che si sono date come compito quello di non deviare dalle cucine di provenienza, evitandone la temuta localizzazione.

È una tensione irrisolvibile: abbiamo tutti assaggiato con disappunto piatti che si presentano come replica di qualcosa che ci è familiare fin dall’infanzia, e che invece non vi somigliano per niente, e che tacciamo dunque di inautenticità. Definizione quantomai sdrucciolevole, dato che uno stesso piatto può essere preparato in modo molto diverso anche da famiglia a famiglia pur residenti nella stessa città, figuriamoci dunque quanto questo criterio possa essere applicato ai sapori diasporici. È una querelle senza soluzione, Associazioni protezionistiche dei piatti veri a parte: il cibo viaggia, e come tutto quello che viaggia, raccoglie strada facendo una personalità sua. Localizzata, regionalizzata, contaminata.

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