Tanto hanno brigato dentro e fuori dal Consiglio superiore della magistratura che, alla fine, gli hanno preferito uno che non sapeva niente e che era capo di niente. Lui ha incassato in silenzio e si è trasferito per la prima volta fuori dalla Sicilia, si è dovuto accontentare di Reggio Calabria. E intanto gli altri andavano dicendo in giro: «Pignatone a dirigere l’ufficio dove c’era Giovanni Falcone? Mai». È stata la sua fortuna.

Potente lo era già prima, ma ancora più potente lo è diventato lontano da Palermo. E paradossalmente deve ringraziare i suoi nemici, i colleghi di Magistratura democratica che non lo volevano lì come procuratore. Rancori antichi, diffidenze. Perché se Giuseppe Pignatone fosse rimasto giù in Sicilia, per tutto ciò che ha sempre rappresentato, non sarebbe mai stato noto al grande pubblico e non avrebbe fatto quello che ha fatto. Per più di mezzo secolo ha attraversato la storia giudiziaria italiana. Sul come, i pareri sono molto contrastanti.
Dall’indagine sul colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo ucciso sotto la montagna di Corleone nel 1977 ai grandi misteri vaticani, dalle guerre del tribunale palermitano degli anni Ottanta al terremoto di Mafia Capitale. Passando dalla scoperta della ’ndrangheta al gorgo del dossier su mafia e appalti, dal veleno e dal trojan del caso Palamara agli strascichi della vicenda Shalabayeva, dalla cattura di Bernardo Provenzano alla scomparsa di Emanuela Orlandi.

Il peso della famiglia

Questo siciliano di poche parole e dai gesti misurati, originario del centro dell’isola, Caltanissetta, ha sempre portato sulle spalle il peso di una famiglia importante. Suo padre Francesco era amico del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, deputato alla Camera per due legislature, soprattutto era uno di quei “grandi vecchi” che della Sicilia conoscevano ogni segreto economico.
È l’eredità che ha ricevuto Pignatone – ora che a settantacinque anni va in pensione lasciando la presidenza del Tribunale della Città del Vaticano – e che ha condizionato, anche indipendentemente dalla sua volontà tutte le sue scelte. Fin dal principio, fin da quando, giovanissimo, è entrato in quel mondo sospeso e irreale che era al tempo la procura della Repubblica di Palermo, sabbie mobili.

Li chiamavano con un perfido doppio senso “i frutti di Martorana”, lui e Guido Lo Forte, la stessa carriera, la stessa eccezionale preparazione giuridica, la casa nello stesso palazzo. La martorana è la tipica pasta di mandorla colorata siciliana ma, Martorana, era anche il nome dell’eminenza grigia della procura, passavano i capi e lui, Gaetano Martorana, era sempre lì a comandare e con quei due sotto la sua ala protettrice. Poi, dopo le stragi, le strade di Pignatone e di Lo Forte si dividono.

Quando arriva Gian Carlo Caselli come procuratore nel 1993, il primo se ne va per un’opposta visione delle vicende giudiziarie, il secondo diventa il braccio destro del magistrato sceso da Torino istruendo con lui il “processo del secolo” contro Giulio Andreotti. Pignatone torna in procura solo quando Caselli non c’è più, nel 2000 è il vice di Piero Grasso.

C’è un prima e c’è un dopo nella sua lunghissima avventura, il confine è l’estate del 1992.

Il prima non è facile da raccontare perché la realtà è contorta, scivolosa. Giuseppe Pignatone non è uno degli amici di Giovanni Falcone e non lo nasconde (e manterrà anche in futuro con coerenza e decoro, al contrario di molti altri, le sue posizioni), una mentalità e un modo diverso di interpretare il ruolo di magistrato, molto osservante delle gerarchie. Tanto da ritrovarsi, al fianco del chiacchieratissimo procuratore capo Pietro Giammanco, anche in una nota nei famosi diari di Falcone su indagini non avviate sulla Gladio nel contesto dei “delitti politici” siciliani.

C’è una guerra che spacca in due il Palazzo di Giustizia palermitano, da una parte gli “istituzionali” e dall’altra i “ribelli” che dopo le bombe firmano un documento contro Giammanco. Pignatone non sta con i ribelli.

Caso Orlandi

La lotta fra una fazione e l’altra della procura è durissima fra il 1987 e il 1992, tutti contro tutti tranne – clamoroso! – in un’occasione: il dossier dei carabinieri su mafia e appalti.

Per la prima volta si ritrovano insieme, la procura di Giuseppe Pignatone e di Guido Lo Forte e la procura di Roberto Scarpinato e di Gioacchino Natoli, separati su tutto ma non su quel rapporto sulla spartizione dei grandi lavori. Stesse valutazioni e stesse archiviazioni. Tutti corrotti? Tutti decisi a nascondere un’indagine per salvare boss mafiosi e capitani d’industria? È il mistero del dossier mafia e appalti e, ancora di più, il mistero della sua ricomparsa a trenta e passa anni di distanza con Pignatone che si ritrova indagato a Caltanissetta per un’inchiesta insabbiata. Vecchi conti con i carabinieri dei reparti speciali del generale Mario Mori, quelli che sono sicuri che Borsellino sia saltato in aria per il rapporto su mafia e appalti.

Non c’è un solo Pignatone in più di cinquant’anni fra Sicilia e Calabria, Roma e Vaticano. Ce ne sono tanti.
Ce n’è un altro accanto al procuratore Grasso quando rinviano a giudizio per favoreggiamento alla mafia il governatore Totò Cuffaro, c’è quello delle indagini che affida al commissario Renato Cortese per la cattura di Bernardo Provenzano dopo 43 anni di latitanza. Il poliziotto e anche un ufficiale dei carabinieri e uno della finanza se li porterà a Reggio e a Roma, è la sua “squadra”, quella segnerà un’altra vita ancora di Giuseppe Pignatone. Con lui gli sta sempre vicino anche Michele Prestipino, che poi prenderà il suo posto di procuratore a Roma ma sarà costretto a lasciarlo a Francecco Lo Voi dopo ricorsi e controricorsi al Tar.

In Calabria Giuseppe Pignatone ci va nel 2008 e sembra un altro, senza la cappa di Palermo, il nuovo procuratore di Reggio “scopre” che lì c’è la ’ndrangheta. Nessuno se n’era occupato prima con tale sapienza. I rapporti dentro la procura non sono idilliaci, soprattutto con Nicola Gratteri. Ma i risultati danno ragione a Pignatone e ai suoi: la Cupola dei mafiosi calabresi, l’asse con il Crimine in Lombardia, i legami con gli ambienti della massoneria deviata dello Stretto.

La Calabria è la vera svolta per Pignatone, poi il salto a Roma nel 2012 come capo della procura.
Nella capitale d’Italia ripropone lo schema adottato giù. Prima prende le misure, poi attacca. È Mafia Capitale. L’indagine questa volta è delegata al Ros dei carabinieri, ne esce fuori il famoso “Mondo di Mezzo”, Massimo Carminati, Salvatore Buzzi e un po’ di taglieggiatori della politica romana. È la rivoluzione per Roma: per molti c’è l’accusa di mafia. Il clamore è tanto, Roma la mafia non se la può permettere e c’è una sollevazione generale, qualcuno sostiene che «la mafia qui l’ha portata proprio Pignatone». I verdetti sulla mafiosità degli imputati sono contraddittori, sino a quando la Cassazione, con dotte motivazioni, mette fine a tutto: non è mafia.

Nel frattempo però partono le critiche per Pignatone, che avrebbe troppo circoscritto le indagini senza aggredire la politica. Nel frattempo però, dopo un’impunità infinita, cominciano a finire in galera i Casamonica, gli Spada, i Fasciani. Quando non possono colpire lui, almeno questa è la sgradevolissima sensazione di certe sentenze, colpiscono chi gli è stato vicino, come Cortese per l’assurda vicenda di Alma Shalabayeva.

Dall’altra parte del Tevere condanna come presidente per reati finanziari il cardinale Angelo Becciu e archivia l’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, la ragazza scomparsa nel 1983.
Non gli risparmia mai critiche il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi. Anche ieri saluta Pignatone così: «Qualcuno lo ringraziano concedendogli la sepoltura in basilica, altri promuovendoli presidenti del Tribunale in Vaticano».

Il riferimento è a Enrico De Pedis, boss della banda della Magliana sospettato di aver avuto un ruolo nella scomparsa di Orlandi, sepolto nella basilica di Sant’Apollinare.

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