- Il 19 febbraio 1937 ad Addis Abeba due ragazzi eritrei lanciano delle bombe verso le autorità, ferendo il generale Rodolfo Graziani. Per tre giorni gli italiani devastano la capitale e le campagne, uccidendo circa 30mila etiopi.
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Il governo etiope nel 1946 ha chiesto del massacro durante la Conferenza di pace di Parigi, senza ottenere risposta. Così come da 16 anni non ottiene risposta la proposta di legge presentata da alcuni parlamentari di istituire per il 19 febbraio il Giorno della memoria in ricordo delle vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana.
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A tenere viva la memoria sono soltanto le iniziative dal basso, come quella del collettivo Wu Ming e di Resistenze in Cirenaica.
«Gli italiani stanno uccidendo la gente con vanghe e badili, chiunque sia, tutti quelli che incontrano. È meglio essere divorati da una iena che farsi uccidere dagli italiani».
A parlare è un cittadino etiope, la sua testimonianza è una delle tante raccolte in decenni di ricerca dallo storico Ian Campbell e presenti nella monografia Il massacro di Addis Abeba. Una vergogna italiana (Rizzoli).
19 febbraio 1937 (Yekatit 12 nel calendario locale), capitale dell’Etiopia. Da due anni sono arrivati i fascisti italiani per riscattare la disfatta tricolore di Adua del 1896 e mostrare i muscoli, colonizzando l’unico stato africano ancora libero dalla dominazione europea.
Un’operazione di propaganda, dai costi economici altissimi e per cui vengono mobilitati mezzo milione di soldati. Fallito il progetto di una guerra lampo per la strenua resistenza etiopica, nel maggio del 1936 i fascisti conquistano Addis Abeba.
Dal balcone di Piazza Venezia Benito Mussolini annuncia «la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma», ma in realtà vaste lande d’Etiopia sono fuori dal controllo italiano. La guerra contro le forze locali prosegue finché gli italiani hanno la meglio.
Sembra la fine delle preoccupazioni fasciste nel Corno d’Africa, ma un evento cambia le carte in tavola e diviene il pretesto per mostrare nel modo più chiaro possibile quella brutalità italiana che tra fucilazioni di massa, campi di concentramento e bombardamenti chimici si stava in realtà palesando già da due anni.
L’attentato
Durante una cerimonia nel palazzo del governo coloniale di Addis Abeba, il 19 febbraio appunto, due ragazzi eritrei lanciano delle bombe verso le autorità.
Il generale Rodolfo Graziani, viceré d'Etiopia, è ferito, qualcun altro muore e l’attentato dà il via a quello che il collettivo Wu Ming ha definito «uno dei peggiori crimini mai compiuti dal Regno d’Italia nelle sue colonie».
Una forma di vendetta collettiva per l’attentato fallito, ma soprattutto una cruenta prova di forza per ristabilire la supremazia bianca e fascista sul territorio.
I carabinieri sparano sulla folla, l’area intorno al palazzo viene chiusa e chiunque si trova al suo interno e non è bianco viene ucciso. Mussolini ordina un «radicale repulisti», funzionari locali diffondono un documento in cui si dice che «Graziani farà sentire a tutti che se la sua pietà è infinita, altrettanto è la sua forza».
Inizia una caccia all’etiope che nella capitale durerà tre giorni, condotta non solo dai militari ma anche dai civili italiani presenti sul territorio.
Tra le testimonianze raccolte da Campbell c’è quella del medico Ladislav Sava: «Revolver, manganelli, pistole e pugnali venivano usati per massacrare gli etiopi disarmati di tutti i sessi, di tutte le età. Qualsiasi uomo di colore visto è stato arrestato, caricato su un camion e ucciso. Case o capanne etiopi sono state perquisite e poi bruciate con i loro occupanti. La maggior parte delle uccisioni sono state eseguite con coltelli e stordendo le vittime con i manganelli. Intere strade venivano date alle fiamme e se gli occupanti delle case in fiamme uscivano nelle strade venivano mitragliati o pugnalati al grido di Duce! Duce! Duce! Le camicie nere si facevano fotografare tenendo in mano teste mozzate di etiopi».
Altri testimoni raccontano che camminando per Addis Abeba si doveva fare i conti con cataste di persone carbonizzate, corpi di bambini mutilati, donne incinte sventrate, figure impalate, superstiti che vagavano disperati alle ricerca di parenti dispersi, chiese saccheggiate.
Non lasciare traccia
In loco c’era anche Ciro Poggiali, inviato del Corriere della Sera, che scrive: «Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada. Lo scempio s’abbatte contro gente ignara e innocente».
Vengono uccisi molti intellettuali, così come chi prova a documentare i fatti, mentre agli italiani sono sequestrate le macchine fotografiche. Dell’eccidio i fascisti non vogliono lasciare tracce e nel momento stesso in cui inizia il massacro comincia anche un’opera di insabbiamento che si prolungherà fino a oggi.
La violenza nei giorni successivi si sposta nelle campagne, vengono date alle fiamme oltre 100mila case, spesso con le famiglie al loro interno.
Il capitolo finale avviene nel convento di Debra Libanos: i monaci cristiani copti sono accusati dai fascisti di aver dato ospitalità ai due attentatori eritrei. «Liquidazione completa», ordina il generale Pietro Maletti e sotto il fuoco italiano finiscono tutti, anche i civili che si trovano nel villaggio monastico.
Secondo le ricostruzioni a Debra Libanos muoiono in 2mila, ad Addis Abeba 19mila, il 20 per cento della popolazione della capitale. Con i morti delle campagne si arriva a 30mila persone brutalmente uccise dagli italiani in poche settimane.
Un massacro di cui il governo etiope nel 1946 ha chiesto conto durante la Conferenza di pace di Parigi, senza ottenere risposta.
Così come da 16 anni non ottiene risposta la proposta di legge presentata da alcuni parlamentari italiani di istituire per il 19 febbraio il Giorno della memoria in ricordo delle vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana.
«In Etiopia le date civili hanno a che vedere essenzialmente con le infamie lì commesse dai governi italiani del passato. Da noi però non si è mai voluto riconoscere questi eccidi», spiega lo storico Alessandro Triulzi.
«Quelle come lo Yekatit 12 sono però questioni che si affacciano con sempre più urgenza nella società italiana. La presenza di migranti che vengono dai contesti del nostro passato coloniale e che si sentono addosso quei traumi, se li portano dietro, sta favorendo questo processo. Eppure si continua a non dare risposte sul perché stavamo lì e cosa abbiamo fatto realmente: politica e istituzioni voltano lo sguardo».
A tenere viva la memoria, visto che rimuovere il ricordo di un crimine significa commetterlo di nuovo, ci pensano le iniziative dal basso, come quella del collettivo Wu Ming e di Resistenze in Cirenaica, che per l’anniversario del 19 febbraio hanno organizzato un trekking urbano a Bologna alla scoperta di luoghi e simboli legati alle nefandezze coloniali; o della Federazione delle Resistenze, che in diverse città italiane ha organizzato azioni di guerriglia odonomastica, camminate e conferenze.
«Finché l’Italia non avrà fatto un lavoro di presa di consapevolezza su cos’è stata la sua presenza coloniale nel periodo liberale e fascista e finché non si riconoscerà che l’Italia ha condotto azioni di criminalità organizzata, non si risolveranno mai i problemi del passato che poi sono anche quelli del presente, come il razzismo», sottolinea Triulzi.
«La nostra eredità coloniale ce la siamo portata appresso per i decenni senza mai investigarla. È ora di cambiare il messaggio e la memoria».
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