- È ormai diventato quasi un luogo comune che l’attenzione ai diritti civili sia una distrazione dalle lotte per la giustizia sociale. Ma l’evidenza ci dice che le due battaglie sono molto più legate di quanto si pensi.
- Donne e persone Lgbtqi sono particolarmente a rischio di esclusione socioeconomica, perché più discriminate, e maltrattate, nel mondo del lavoro e, prima, nella scuola.
- La salvaguardia dei diritti civili, l’inclusione e il rispetto delle più diverse identità di genere e orientamenti affettivi sono innanzitutto strumenti per la giustizia sociale, affinché nessuno sia penalizzato in partenza e tutti abbiano le stesse opportunità nei vari passaggi della vita.
«Le operaie devono farsi toccare il culo dai capetti e dai colleghi senza fiatare. Se il padroncino ne ha necessità, qualcuna deve seguirlo nella camera di stagionatura, cosa che chiedeva già suo padre, forse anche suo nonno, e lì, prima di saltarti addosso, ti tiene un discorsetto collaudato su come lo eccita l’odore dei salumi». Lila Cerullo, in “Storia di chi fugge e di chi resta” di Elena Ferrante, rivolge queste parole a giovani intellettuali per descrivere la vita di fabbrica, durante una riunione politica.
Immagini crude, ben diverse dalla idealizzata unità della classe operaia in cui gli astanti, che probabilmente in una fabbrica non erano mai entrati, verosimilmente credevano, così ignorando le diseguaglianze e gli abusi di potere che esistevano tra donne e uomini e che spesso si preferiva ignorare in nome di una presunta unità di fronte a “problemi più seri”.
Questa posizione è tornata attuale nel dibattito sulla presunta differenza di importanza, se non addirittura presunto conflitto, fra la battaglia per i diritti civili e quella per la giustizia sociale. L’opinione che la prima riguardi minoranze privilegiate, ad esempio donne e persone Lgbtqi già ben integrate nella società, è talmente trasversale da essere diventata un luogo comune.
A parte qualche differenza di stile, il pensiero di intellettuali che si collocano a sinistra come Federico Rampini e Carlo Freccero, così come quello espresso dai partiti e dalla stampa di destra, si possono efficacemente riassumere nella frase con cui Gianni Cuperlo, come ha raccontato in questo giornale, si è sentito un giorno apostrofare: «State ancora a parlà de froci, ma n’do vivete!».
L’evidenza accumulata in numerose ricerche, tuttavia, è molto più simile al racconto di Lila che a certe battute grevi e luoghi comuni: in termini puramente numerici, donne e persone Lgbtqi siano sovra-rappresentati tra coloro che sono esclusi socialmente ed economicamente.
Le condizioni generali della popolazione Lgbtqi è oltretutto solo di recente documentazione, cosa che di per sé mostra quanto lo stigma sociale contro queste persone abbia a lungo riguardato la ricerca stessa, e si sia tradotto nella cosiddetta “invisibilità statistica” di buona parte di questa comunità. Di conseguenza, senza affrontare la dimensione di identità e genere della povertà ed esclusione non si possono davvero combattere le disuguaglianze sociali.
Molestie, discriminazione e odio di genere e orientamento affettivo, inoltre, riguardano soprattutto le classi e i lavoratori in condizioni socio-economiche più fragili. È proprio nei campi agricoli, nelle fabbriche, nell’esercito e forze dell’ordine, nell’amministrazione pubblica e nelle scuole che la violazione dei diritti individuali e civili si combina con la questione sociale.
Il lavoro e la scuola
L’ampliamente documentata discriminazione nel mondo del lavoro, a tutti i livelli, è uno dei fenomeni principali per spiegare l’esclusione sociale di donne e persone Lgbtqi. Questa disparità di trattamento si manifesta in una minore probabilità, a parità di titoli, di essere chiamati a un colloquio di lavoro, e continua con salari più bassi a parità di mansioni e tassi di occupazione inferiori, nell’industria come nei servizi.
I processi che portano alla minore inclusione sociale cominciano, tuttavia, prima dell’ingresso nel mondo del lavoro. Se, per esempio, una volta intrapresi gli studi universitari le persone Lgbtqi hanno probabilità di successo superiori alla media, è al contrario più elevato il loro tasso di abbandono nei gradi inferiori.
La diffusa omotransfobia, più o meno esplicita, aiuta a spiegare questo apparente paradosso. Coloro che meglio resistono al clima a loro ostile, verosimilmente perché meglio supportati dalle loro famiglie e reti sociali, o perché vivono in luoghi con più apertura culturale, hanno maggior probabilità di completare la scuola superiore e accedere, mediamente con successo, all’università.
Per quelli meno sostenuti dal contesto e plausibilmente con qualche difficoltà scolastica (ma non maggiore dei loro pari eterosessuali), l’isolamento culturale e sociale crea ulteriori ostacoli al loro apprendimento scolastico.
Inoltre, chi ha un’istruzione maggiore può poi sentirsi più sereno nel rivelare il proprio orientamento affettivo rispetto a chi teme ritorsioni; è quindi verosimile che tra chi abbandona gli studi, ci siano ancor più persone Lgbtqi di quante di dichiarino tali, e che quindi il problema sia ancora più grave di quello che le statistiche riportano.
L’invisibilità statistica a cui si accennava sopra deriva non solo dalla mancanza di indagini comprensive, ma anche dai timori delle persone di dichiarare apertamente la propria identità affettiva.
Gli studenti, poi, possono essere discriminati non solo per il loro orientamento affettivo, ma anche per quello dei loro genitori. Ad esempio, gli insegnanti comunicano meno con genitori omosessuali (specie se di genere maschile) che con quelli eterosessuali, limitando così le occasioni di collaborazione educativa. Di nuovo, famiglie meno corazzate economicamente e culturalmente finiscono per essere penalizzate due volte.
Sempre nell’ambito educativo, e come abbiamo descritto in passato su queste pagine, spesso si traducono e rinforzano quegli stereotipi di genere che portano le ragazze a prestare meno attenzione a certe materie o a rinunciare del tutto a intraprendere certi studi, specie nel campo scientifico, matematico e tecnologico, che che offrono migliori opportunità lavorative. Studi più recenti mostrano dinamiche simili per persone Lgbtqi.
Molestie ed esclusione
Le scuole e i luoghi di lavoro sono anche meno sicuri per l'incolumità fisica e psicologica di donne e persone Lgbtqi rispetto ai maschi eterosessuali (specie se bianchi). L’Istat, l’Organizzazione mondiale del lavoro e il Center for american progress, fra gli altri, evidenziano che i settori in cui molestie e violenze sono più frequenti sono quelli dei servizi, ad esempio educativi e socio-sanitari, ristorazione, trasporto e ospitalità, e l’industria manifatturiera.
Lavoratori e lavoratrici precari, proprio per la loro posizione più debole e subalterna, sono quelli meno tutelati anche su questo aspetto. Chi è più a rischio di abuso sul luogo di lavoro tenderà anche ad avere occupazioni meno stabili e durature, cosa che a sua volta ha effetti negativi sulle opportunità di carriera e crescita professionale.
La percezione di ostilità basata sulla propria identità ha poi effetti negativi sul rendimento lavorativo di chi ne è vittima; chi si sente meno riconosciuto e realizzato come persona nel proprio lavoro è anche meno motivato. Di nuovo, questi fenomeni discriminatori coinvolgono la dimensione personale e civile tanto quella sociale, contribuendo a creare e poi acuire le differenze di opportunità.
Una falsa contrapposizione
Nelle nostre riflessioni ci siamo concentrati sulle discriminazioni di genere e orientamento affettivo. Tuttavia i pregiudizi sono tanti quante sono le dimensioni dell’identità della persona (genere, affettività, religione, etnia, gruppo sociale). Le forme specifiche di penalizzazione differiscono per ognuna di queste categorie, ma l’origine è comune: la paura del diverso da ciò che si è o si vorrebbe essere. E gli effetti sono simili, anzi si accumulano con la distanza, in ogni dimensione, da ciò che viene percepito come la “normalità”.
La salvaguardia dei diritti civili, l’inclusione e il rispetto delle più diverse identità di genere e orientamenti affettivi, in conclusione, sono innanzitutto strumenti per la giustizia sociale, affinché nessuno sia penalizzato in partenza e tutti abbiano le stesse opportunità nei vari passaggi della vita.
Il matrimonio egualitario, l’adozione da parte di famiglie Lgbtqi, il riconoscimento dell’identità di genere, la lotta all’omotransfobia, la tutela delle minoranze nei luoghi di lavoro, l’accoglienza e trattamento dignitoso dei migranti, così come la guardia sempre alta per la salvaguardia di diritti acquisiti come il controllo delle donne sul proprio corpo, beneficiano soprattutto chi è più svantaggiato e non i ricchi e famosi.
Considerare questi temi come separati da, e addirittura in competizione con, battaglie contro la disuguaglianza significa limitare la portata di queste storiche rivendicazioni. E questa fittizia divisione favorisce chi invece è ostile a una maggiore equità e non può che beneficiare dal tenere separate fra loro le categorie più fragili.
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