- Dedicare un intero anno a scavare nelle pieghe delle vecchie e nuove disuguaglianze, pregevole programma della direzione di questo giornale, non trova giustificazione solo nella cronaca del mondo, ma in una letteratura che lungo gli anni non ha smesso di interrogarsi sul tema.
- Secondo Anthony Atkinson non ci si può preoccupare solamente della disuguaglianza delle opportunità, con eguale volontà bisogna occuparsi della disuguaglianza degli esiti.
- Il confronto sulla disuguaglianza ha l’obbligo di uscire dall’alveo di una riflessione teorica o meramente tecnica, per recuperare interamente la sua matrice politica restituendo alla sinistra, sulle due sponde atlantiche, quella capacità di attrazione che, piaccia o meno, passa da un ponticello stretto: convincere milioni di persone che da questa parte c’è non il sogno, ma la possibilità concreta di una vita migliore.
Dedicare un intero anno a scavare nelle pieghe delle vecchie e nuove disuguaglianze, pregevole programma della direzione di questo giornale, non trova giustificazione solo nella cronaca del mondo, ma in una letteratura che lungo gli anni non ha smesso di interrogarsi sulle ricadute di quegli squilibri, spesso indecenti, a volte immorali, sulla vita di qualche miliardo di persone.
Tra quanti hanno seminato meglio e alimentato la spinta a non contentarsi del pensiero diffuso e (solo) apparentemente condiviso, Anthony Atkinson occupa un posto sul podio. Per la coerenza della teoria affinata nel tempo e, non ultimo, per avere ispirato decine di altre e altri studiosi, Piketty il nome più illustre, in grado nella popolarità di superare il maestro eppure debitori nei suoi confronti di parte importante della loro elaborazione.
Ma quali sono stati i pilastri del pensiero di quel grande economista britannico? In primo luogo l’affermazione destinata a reggere l’apparato teorico e ideale della sua ricerca: «La disuguaglianza è una violazione della dignità umana. Non è solo legata alle dimensioni del proprio portafoglio. È un ordinamento sociale e culturale che riduce le capacità, il rispetto e il senso di sé».
Secondo pilastro, al primo connesso: la disuguaglianza è il risultato di precise scelte della politica, dunque non va intesa come accidente frutto degli eventi in una concatenazione più o meno casuale, ma come espressione di una lettura della società, delle sue gerarchie, interessi, bisogni, rapporti di forza e potere.
In verità basterebbero queste due premesse a sgombrare il campo da buona parte del bagaglio ideologico sui mercati capaci di autoregolarsi allocando le risorse nella forma più efficace ed efficiente.
La disuguaglianza degli esiti
Ma Atkinson si spinge oltre, fin lì dove la politica anche a sinistra (o soprattutto a sinistra) stenta ad arrivare. E dice questo: non ci si può preoccupare solamente della disuguaglianza delle opportunità, con eguale volontà bisogna occuparsi della disuguaglianza degli esiti sapendo quanto quest’ultima dipenda dall'intreccio tra «fattori demografici, funzionamento del mercato del lavoro, efficacia della contrattazione collettiva, distribuzione del reddito da capitale, modi di formazione delle famiglie (in particolare dei modelli di genere), funzionamento del welfare».
Posta così, ma è il solo modo serio di porla, anche la statistica spessissimo evocata (tra il 1978 e il 2012 le retribuzioni degli amministratori delegati sono aumentate dell’876 per cento a fronte di un aumento del cinque per cento delle remunerazioni orarie del lavoratore mediano, facendo schizzare il rapporto tra le due tipologie dal 20 per cento del 1965 al 273 per cento del 2012), dicevo, posta come la pone Atkinson anche quelle cifre assumono un rilievo diverso nel senso di svelare quale impatto enorme abbia avuto la rimozione di fattori strutturali, e di lungo periodo, destinati ad alterare fisionomia e fisiologia delle nostre strutture sociali (compresa la mobilità ascendente, le coperture assistenziali, l’accesso pieno alla cittadinanza).
Il pudore e la tassazione
Conseguenza di tutto ciò è stata anche una correzione della graduatoria sociale, se parliamo di redditi, con i classici rentiers sorpassati nella scala da grandi finanzieri, amministratori delegati, calciatori, star dello spettacolo e, soprattutto in Italia, funzionari pubblici di alto grado.
Ora, risulta piuttosto ardito dimostrare che retribuzioni altissime – diciamo pure, fuori logica – riflettano una premialità del merito, mentre avrebbe un serio fondamento prevedere su quegli alti redditi una tassazione finalizzata al sostegno di investimenti mirati a risollevare i redditi più mortificati. Nulla di particolarmente originale, si chiamava e si chiama “redistribuzione”. La stranezza, volendo cercarla, sta nel pudore a evocarla come antidoto a una società progressivamente diseguale e incattivita nelle sue sfere più offese e penalizzate.
Ma può bastare innestare la retromarcia e tornare al modello redistributivo dei famosi trent’anni “gloriosi” del secondo dopoguerra? Per capirci, quelli dove la triangolazione tra crescita economica, espansione della democrazia e coesione sociale aveva consentito un allargamento graduale della classe media protetta da un welfare amico e salari adeguati ai nuovi standard di benessere?
La risposta è no, tornare a quel mondo e modello semplicemente non si può. E il motivo sta nelle cose, nei processi in atto: una tecnologia che ha già impattato e sempre di più impatterà il sistema occupazionale, una dinamica globale dei processi politici che ha modificato i rapporti di potere e “scompigliato” i confini.
E ancora, se concentriamo lo sguardo su di noi, sull’occidente, l’invecchiamento della popolazione e la decisiva battaglia di emancipazione e autonomia delle donne con una conseguente rottura di modelli e bisogni sociali e culturali scardinati dopo decenni o secoli. Anche per tutto questo incamminarsi sul sentiero del welfare tradizionale non basta più.
E allora? Allora, seguendo ancora la riflessione di Atkinson, la strada non passa solamente da un aumento (necessario e provvidenziale si capisce) della spesa sociale con la revisione coraggiosa dei sistemi fiscali.
«La strada è ripensare il modo in cui funzionano il mercato e i redditi che da questo provengono», ma dirlo equivale a uscire dal conflitto tra politiche di investimento sociale, cosiddette attive, che sarebbero quelle di welfare moderno, e politiche di protezione sociale, cosiddette passive, che sarebbero quelle del welfare tradizionale.
Spiega Atkinson come «protezione e investimento stanno assieme se si è capaci di intervenire in primo luogo sui meccanismi che determinano i redditi da mercato del lavoro e da capitale per mettere gli individui in grado di esercitare un controllo diretto sulla propria vita».
Reddito di partecipazione
Un esempio, e ci avviciniamo così alla cronaca del dibattito in corso nei parlamenti di ogni democrazia: quella combinazione di protezione e attivazione la si coglie nella proposta di un salario minimo fissato al livello “di ciò che è ritenuto necessario per vivere”.
Proposta integrata, volendolo, da uno sconto fiscale sul reddito da lavoro e un reddito minimo universale, un “reddito di partecipazione”, non subordinato a requisiti di guadagno, ma solo a requisiti di attività (nel mercato, nelle cure familiari, nel volontariato, nello studio). Soluzione diversa tanto dal reddito di cittadinanza che dal reddito minimo per i poveri.
Un “reddito di partecipazione” consentirebbe di incrociare meglio le condizioni del mercato del lavoro con i suoi confini a oggi piuttosto incerti e volubili tra occupazione e disoccupazione. Questa forma di reddito sostituirebbe gli sgravi fiscali che oggi nei fatti favoriscono più i ricchi rispetto ai troppi consegnati a un reddito modesto.
Un passo in questa direzione potrebbe essere un assegno per i figli definito a livello europeo, quindi vincolante per tutti con l’obiettivo di ridurre la povertà dei bambini riequilibrando il bilancio delle famiglie «spesso in tensione tra reddito disponibile e numero dei consumatori».
Qui da noi il Forum sulle disuguaglianze e diversità da tempo riflette su questi temi che, per altro, non si distanziano troppo dall’ipotesi di istituire una “dote sociale” (una eredità minima sociale) da trasferire a ogni cittadino al raggiungimento della maggiore età e che «costituirebbe una misura di pari opportunità tra bambini e di investimento sociale delle generazioni più giovani».
Suggestioni? Utopie? Forse no. Forse giunti al punto di tensione sociale con la stessa democrazia per come l’abbiamo ereditata esposta a più di qualche rischio, il confronto sulla disuguaglianza ha l’obbligo di uscire dall’alveo di una riflessione teorica o meramente tecnica, per recuperare interamente la sua matrice politica restituendo alla sinistra, sulle due sponde atlantiche, quella capacità di attrazione che, piaccia o meno, passa da un ponticello stretto: convincere milioni di persone che da questa parte c’è non il sogno, ma la possibilità concreta di una vita migliore. A qualcuno sembrerà poco. Di questi tempi a me pare tutto.
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