Prima di lasciarlo salire sull’Air Force One in direzione Pechino, il consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger aveva impartito una serie di lezioni a Richard Nixon. La prima visita di un presidente americano in Cina andava preparata nei minimi dettagli, studiando anche quelli all’apparenza più inutili. Di certo non lo era il modo in cui si sarebbe dovuto comportare a tavola. <<I cinesi sono molto orgogliosi del loro cibo, reagiscono con molto piacere ai complimenti per la varietà di sapori, consistenze e aromi della loro cucina>>, scriveva Kissinger in un promemoria. Non è stato l’unico. Con un altro si raccomandava di non rimanerci male né scandalizzarsi qualora durante il pasto qualcuno avesse mangiato rumorosamente una zuppa, o peggio ancora ruttato, in quanto due sinonimi di apprezzamento. Nixon doveva completamente immergersi nella cultura locale, dimenticandosi della forchetta per imparare a maneggiare le bacchette. La prova venne superata con lode. Alla cena organizzata nella Grande Sala del Popolo, seguita in diretta televisiva da milioni di americani, presero parte circa seicento persone ma tutti gli occhi erano puntati sul capo della Casa Bianca, che impressionò per la sua facilità di adattamento a usi e costumi lontani dai suoi.

Quel viaggio rappresentava un punto di svolta nelle relazioni sino-americane. Era il 1972, in piena Guerra Fredda, e l’obiettivo degli Stati Uniti era di avvicinarsi a un alleato strategico (ma mai considerato amico) dell’Unione Sovietica di Leonid Bréžnev. La missione diplomatica volta alla distensione era delicatissima, ragion per cui non era ammesso alcuno sbaglio. E durante i vari banchetti, dove era facile scivolare, Nixon le azzeccò tutte nonostante al suo fianco avesse un giudice non banale, quale il premier cinese Chou En-lai. Bevvero insieme l’acquavite al Baijiu e il liquore Maotai (a piccole dosi, perché lo staff del presidente americano aveva paura che l’alcol potesse condizionarlo) e apprezzò tutto quello che gli venne servito: ravioli, riso fritto, uova, pinne di squalo e più di ogni altra cosa l’anatra, il suo piatto preferito. Più che sugli americani, la strategia e le precauzioni adottate dall’amministrazione repubblicana dell’epoca dicono molto dei cinesi, che utilizzano il cibo come uno strumento di soft-power nella loro politica estera. Soprattutto con Washington.

Food diplomacy come strumento di distensione

Come osserva l’esperto professore universitario Thomas DuBois, per la Cina aprirsi a una nuova cultura culinaria è una dimostrazione di umiltà molto apprezzata, una messa in discussione di se stessi per affrontare l’ignoto. L’esempio concreto arriva dalla segretaria al Tesoro americana, Janet Yellen. Nonostante la mole di sanzioni imposte contro la Cina, il suo viaggio nella terra del Dragone è stato descritto più volte come quianxu, ossia “umile”, giustappunto. Yellen è solita assaggiare i prodotti tipici di un luogo che visita e in Cina non ha cambiato abitudini: l’anno scorso la segretaria ha mangiato in posti iconici ordinando piatti della tradizione, come quelli del Guangzhou o del Sichuan. È talmente curiosa di scoprire nuove ricette che in un ristorante dello Yunnan ha ordinato dei funghi jian shou ging, tipici delle regioni sud-occidentali, che possono avere effetti allucinogeni quando non sono completamente cotti. La storia che Yellen fosse strafatta mentre girava per la Cina (lei ha sempre garantito di essere stata lucida) ha tenuto banco per giorni e ha persino condizionato le vendite dei funghi, richiesti da tutti dopo quell’episodio. Le scelte di Yellen sono state talmente apprezzate dal pubblico che il Global Times, megafono mediatico del Partito Comunista Cinese, le ha persino dedicato un articolo parlando di “diplomazia alimentare”: la foto di copertina la ritraeva mentre sorseggiava una pinta in un birrificio pechinese, per sottolineare l’importanza del luppolo americano e quindi dell’export in Cina.

Quando il cibo non basta

Tuttavia, a Yellen veniva ricordato che mangiare bene valeva il giusto, senza sincerità nelle relazioni. Ne sa qualcosa Michelle Obama. L’ex first lady era stata prima apprezzata per aver mangiato una zuppa molto piccante senza battere ciglio, dimostrando di saper accettare la cultura cinese così com’è, ma subito dopo è stata screditata per essere andata in un ristorante in Tibet, un modo indiretto per esprimere vicinanza a chi in quella regione lotta per la salvaguardia dei diritti umani. Se l’era cavata in qualche modo anche Joe Biden. Durante una visita nel 2011, quando ricopriva la carica di vicepresidente, non ce l’aveva fatta a mangiare lo chaogan (uno stufato di fegato e interiora di maiale). Ma era stato perdonato per via del sapore troppo forte, a cui i pechinesi sono abituati a differenza degli stranieri. Biden aveva recuperato assaggiando gli zha jiang mian (spaghetti con salsa di fagioli fritti), altro piatto tipico della capitale. Il suo viaggio aveva contribuito a far conoscere ristorante in cui ha mangiato, lo Yaoji Chaogan, il cui proprietario sperava che potesse tornare una volta diventato presidente, incurante che da lì a qualche anno le relazioni tra le due superpotenze sarebbero di gran lunga peggiorate. Oggi il giudizio dei cinesi su Biden potrebbe essere negativo, ma allora dalla sua visita si sviluppò la dottrina del noodles diplomacy.

Nell’anonimato era finito invece il viaggio del segretario di Stato Antony Blinken, al quale il cibo è servito ma fino a un certo punto. Non aveva riscosso lo stesso interesse di Yellen, né di Biden, sebbene non si fosse negato alla cultura del posto. Era andato a mangiare in un tipico ristorante di ravioli, per assaggiare i famosi baozi, ripieni di carne o verdure e cotti al vapore. Chissà se dopo aver letto un commento che un utente ha lasciato su Weibo, sintetizzando quanto conti per la Cina il cibo in diplomazia: “Mangiarli è come gestire le relazioni internazionali. Se la tua attenzione si distrae anche solo un po’, ti scotti”.

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