In Brasile è tutto troppo grande, per questo c’è sempre lo spazio per tornarci. Darwin Pastorin – scrittore e giornalista – nato a San Paolo da genitori emigrati da Verona e trasferiti a Torino, spesso nei suoi libri ci torna, tanto da aver costruito, negli anni, un ponte tra i lettori italiani e il mondo sportivo e culturale brasiliano.

Esistesse il teletrasporto Pastorin farebbe avanti e indietro tra San Paolo e Torino. Si deve a lui la venerazione per Mané Garrincha tra gli italiani, alla sua capacità di raccontarlo nei dettagli, fornendo a chi non l’ha visto fintare tutti i movimenti dell’ala brasiliana che fece segnare a Pelé un mucchio di gol e vincere al Brasile il mondiale in Svezia nel 1958 e in Cile nel 1962. Si deve a Pastorin anche il recupero del portiere brasiliano Moacir Barbosa divenuto colpevole della sconfitta contro il Brasile nella finale di Coppa Rimet nel 1950.

«In Brasile la pena massima è di trent'anni, ma io sto pagandone più di quaranta per un crimine mai commesso». Unendo questi due calciatori è venuto fuori Dedé un portiere con una gamba più corta come Garrincha col senso di colpa di Barbosa che diventa l’eroe del portierino Giovanni, un bambino italiano in Brasile che racconta la Grande Partita – tutti prima o poi sono gli eroi di una partita epica e se non lo sono l’inventano – alla nipotina Giada che sogna d’essere «Rogá», una calciatrice metà Cristiano Ronaldo e metà Sara Gama: «Ecco a voi nonno Dedé e la sua nipotina Rogá» che sono il cuore nel nuovo libro di Pastorin: Eravamo piccoli Pelé (Aliberti junior, con prefazione di Alessandro Di Nuzzo).

Una favola di calcio, emigrazione e dialogo tra generazioni. Pastorin ci mette la sua capacità di salgarian-deamicisiano, la profonda conoscenza del calcio con tutti i risvolti sociali, e ne approfitta per raccontare a un paese razzista – l’Italia – che in passato i migranti eravamo noi. All’interno della favola gioca come Giacomo Puccini nelle sue opere: fa tornare i suoi mondi – calcistici e non –, si cita, saluta amici come Antonio Tabucchi e sovrappone, crasa, riscrive la sua vita.

Pastorin sa come andare all’origine di una partita, come costruire l’attesa che l’avvolge, e poi sciogliere tutto nel gioco. Anche se si tratta di una partita tra ragazzini prepotenti e ragazzini sognatori, tra una squadra di bulli e una di spaccanuvole, e proprio traslando le finali di Coppa del Mondo viste e raccontate che la partita tra bambini diventa migliore della finale mondiale e la finale mondiale una partita tra bambini infiniti.

È questa la magia del calcio, almeno quello di Pastorin, non quello di Gianni Infantino, presidente della FIFA. E la squadra del Palmeiras – società polisportiva di San Paolo del Brasile – diventa l’utopia da passare da nonno a nipote, l’ultima eredità possibile per conservare le radici d’emigrazione. Il pallone rotola allo stesso modo anche se cambiano i piedi e la superficie, la squadra di ieri del nonno diventa quella di oggi della nipotina, saltando l’oceano e il tempo.

Quello che rimane è il fischio dei gol, segnati da Giada, evitati da Giovanni. Darwin Pastorin disegna a parole un campo che va da San Paolo a Torino, il suo, e ci mette dentro tutti: vivi e morti, sconosciuti e grandi calciatori, e poi racconta quello che succede, partite su partite, discussioni su discussioni, ricordi su ricordi, gol su gol, dove è relativo chi vinca la Grande Partita, quello che conta è giocarla. Perché la Grande Partita non finisce mai, è il gioco del mondo.

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