- Scalfari non si può definire stricto sensu un giornalista. Ossia Scalfari, i giornali cui ha collaborato, li ha lui stesso fondati e diretti.
- La battaglia di Scalfari è consistita nel tentare di ricondurre l’Italia entro gli schemi politico-istituzionali di un normale paese democratico europeo.
- Perciò, il primo obiettivo è la denuncia di quel tessuto segreto di complicità e di oscure alleanze, che ha avvelenato così spesso dietro le quinte la vita politica e civile del nostro paese e che tende facilmente a sconfinare nell’eversione.
Il brano che segue è un estratto dal saggio: Il giornalismo. E altro, molto altro a firma del critico letterario Alberto Asor Rosa, che fa da introduzione del libro che nel 2012 Mondadori ha dedicato alla vita e alle opere di Eugenio Scalfari, La passione dell’etica. Scritti 1963-2012, a cura di Angelo Cannatà, per la collana I Meridiani. Lo ripubblichiamo per gentile concessione dell’editore.
Il volume contiene una selezione dei più importanti testi giornalistici su temi economico-politici dal 1963 – quando Scalfari divenne direttore dell’Espresso – al 2012, e i libri scritti tra gli anni Novanta e il 2012.
Una raccolta di cui Alberto Asor Rosa offre una «lettura ragionata» secondo un approccio cronologico, che non manca di «cogliere e segnalare gli innumerevoli rinvii che i testi suggeriscono e spesso c’impongono» come lo stesso critico letterario precisava.
Il giornalismo. E altro, molto altro
Dopo alcune intense ma brevi esperienze bancarie, dalle quali ha tratto la sua permanente vocazione economica, Scalfari ha collaborato alla fondazione del settimanale L’Espresso (1955), con Arrigo Benedetti – grande e innovativo giornalista della generazione precedente –, e ne ha raccolto la direzione nel 1963 (quando aveva trentanove anni) e l’ha tenuta fino al 1968. Nel 1976 (quando ne aveva cinquantadue), insieme con Carlo Caracciolo, Adriano Olivetti e Mario Formenton, ha fondato il quotidiano la Repubblica, divenendone da subito direttore. Ne ha tenuto la direzione fino al 1996.
Come lui stesso ama sempre più spesso ripetere, Scalfari non si può dunque definire stricto sensu un giornalista. Alle sue spalle, cioè, non c’è un vero e proprio apprendistato professionale, se non forse soltanto nei suoi primissimi anni.
Ossia Scalfari, i giornali cui ha collaborato, li ha lui stesso fondati e diretti: non ne è stato mai, per intenderci, un collaboratore subalterno e, in qualche misura, eteroguidato.
Quello che potremmo definire come un vero e proprio genere giornalistico nuovo, e cioè, per l’appunto, l’“articolo scalfariano”, è un mix estremamente sapiente di analisi, informazione, intrattenimento e giudizio politico e civile.
Il mestiere di giornalista
Di una professione giornalistica di così ampia latitudine e serietà costituiscono premessa essenziale i princìpi che la fondano. Non a caso, nell’Italia travagliata e sconnessa degli ultimi cinquant’anni, Scalfari dedica tanto spazio e impegno a precisare questo aspetto davvero decisivo della questione. E non a caso essa appare qui tanto chiara fin dagli esordi della propria esperienza. È infatti proprio nell’articolo in cui si rammarica che Arrigo Benedetti abbandoni il suo ultimo rapporto con «L’Espresso» (A un amico che ci lascia, 26 giugno 1967), che egli ne formula una definizione così chiara e per molti aspetti conclusiva:
«Qualcuno dirà o penserà che questa linea ha il torto di non scegliere una volta per tutte un campo contro l’altro. Ma chi dice o pensa in tal modo commette un errore assai grave, perché noi, il nostro campo, l’abbiamo scelto da molto tempo e una volta per tutte: siamo contro tutte le dittature di qualsiasi colore, sovietiche, greche, spagnole o nasseriane che siano; siamo contro la violenza e l’incitamento alla violenza da qualunque parte provenga [...] Siamo, dovunque, con le colombe e contro i falchi, anche se è vero che talvolta, per sopravvivere, le colombe debbano mettere becco e artigli. Per difendersi. Mai per aggredire».
Per riuscire a tenere fino in fondo questo atteggiamento la prima e più importante delle ragioni è sempre stata «l’indipendenza di cui il giornale [la Repubblica] ha finora goduto» (Mackie Messer ha il coltello ma vedere non lo fa..., 13 gennaio 1990).
Commemorando Benedetti, Scalfari ne celebra la «irriverenza verso il potere» e la persuasione che il giornalista sia «portatore d’un diritto della collettività a conoscere e a svelare i fatti e quello che c’era dietro».
Dunque, fin dall’inizio e poi per sempre, una battaglia aperta e senza quartiere contro «l’autocensura nel giornalismo italiano». E ancora: la regola a «considerare la redazione non solo come un luogo di lavoro, ma come una scuola».
Anni dopo, il grande successo della Repubblica induce il fondatore ad approfondire il discorso (Mackie Messer ha il coltello ma vedere non lo fa..., cit.). Siamo di fronte a un caso abbastanza eccezionale – un «ircocervo» appunto, come lui stesso si autodefinisce –, in cui il direttore è anche imprenditore di se stesso e comproprietario della testata.
Si tratterebbe dunque di quel che gli avversari definiscono polemicamente un «giornale-partito». Precedenti, nella stampa italiana, però, osserva Scalfari, ce ne sono stati, e di illustri: Alfredo Frassati alla Stampa; Alberto Bergamini al Giornale d’Italia; ma soprattutto Luigi Albertini al Corriere della Sera. Ma queste caratteristiche, invece di limitare l’indipendenza del giornale, la rafforzano. Non dipendere da nessuno presenta, appunto, i suoi vantaggi.
Se mai, il problema è mantenere l’equilibrio dei ruoli e delle funzioni. In un altro lungo articolo dedicato al medesimo argomento (Il giornale partito di Luigi Albertini, 1º agosto 2007), Scalfari spiega: «Il solo vero modo di rispettare i lettori, secondo una regola che ho sempre cercato di praticare, è quello di presentarsi per ciò che si è e di stare ai fatti con la maggiore oggettività possibile».
Dunque, ogni grande giornale è un giornale-giornale e al tempo stesso un giornale-partito: «Il risultato dipende dalla misura e dall’onestà dell’intento».
Le consorterie e le amicizie
Le radici di Scalfari (e, in modo peculiare, dello Scalfari giornalista) stanno nel gruppo e nell’esperienza del Mondo: cioè, in quel piccolo caposaldo di cultura liberaldemocratica italiana, che, nel lungo periodo di assoluta predominanza democristiano-comunista, da una parte raccoglie l’eredità del Partito d’azione, dall’altra si rifà ai maestri classici del liberalismo italiano, da Benedetto Croce a Luigi Einaudi.
Però Scalfari distingue subito (I padri del «Mondo», 8 febbraio 1987): Il Mondo ebbe origine secondo lui dal felice, fortunato incontro fra il crocianesimo di Pannunzio e il salveminismo di Ernesto Rossi.
A quest’ultimo, però, Scalfari attribuisce alcune qualità che sembrerebbero anche tra le sue preferite: «il gusto della concretezza, il rifiuto degli schemi, l’ottimismo della volontà e, a differenza di quanto pensava Gramsci, anche della ragione».
Il Mondo trasse forza dalla fusione – finché durò – di queste due diverse personalità. Ma non è azzardato avanzare l’ipotesi che, dovendo scegliere, Scalfari avrebbe scelto il “versante” Rossi. «Ci sono sempre state due anime» precisa Scalfari «nel liberalismo italiano ed è fin troppo facile definirle l’anima conservatrice e quella progressista».
Anche in questo caso la distinzione non riguarda alla lettera quella (o quelle) fra le due personalità richiamate qui sopra. Ma non c’è dubbio, anche in questo caso, che, dovendo collocarsi, Scalfari preferirebbe farlo nella seconda delle due caselle liberali da lui disegnate: quella progressista.
Che vuol dire questo? Vuol dire che, in una visione generale del problema politico italiano, anzi europeo, Scalfari si posiziona, sì, dalla parte del capitalismo, richiamandosi però al tempo stesso ai princìpi di una democrazia economica regolata dall’intervento temperato dello stato. Non a caso enunciazioni di tale natura ricorrono proprio nell’articolo in memoria di Bruno Visentini (Un discepolo di Voltaire..., 14 febbraio 1995), uno di quei (pochi, pochissimi) “grandi borghesi”, che hanno illustrato la storia italiana degli ultimi decenni.
Fanno parte di questo corredo la «difesa della concorrenza» e la «lotta contro i monopoli pubblici e privati»; e insieme la persuasione profonda che «il liberismo selvaggio inselvatichisce la società e deve essere costretto al rispetto dell’interesse generale e della democrazia economica che lo realizza».
Sarebbe ancor più semplice osservare che il liberalismo scalfariano affonda le sue radici nel verbo illuministico più originario, quello diderottiano e volterriano (come vedremo meglio più avanti).
Molti, molti anni più tardi (L’ingiustizia ha sconvolto il benessere del mondo, 5 aprile 2009), a testimonianza del fatto che tale posizione fa parte del corredo genetico-intellettuale più autentico del nostro personaggio, Scalfari denuncia che la «disuguaglianza» si colloca alla base dell’attuale scompenso produttivo e sociale; e che quello che lui chiama «il trittico della modernità» – libertà e fraternità, ovviamente, che però non sono niente o, meglio, non funzionano se ad esse non si aggiunge il terzo elemento, e cioè l’eguaglianza – è imprescindibile dalla ripresa mondiale, economica e politico-sociale: «Non ci sarà crescita senza redistribuzione del reddito e della ricchezza».
In una delle conversazioni avute più avanti da Scalfari con il cardinal Martini, è quest’ultimo a osservare che «il vero peccato del mondo è l’ingiustizia e la diseguaglianza» (Il Cardinale Martini. «Un Concilio sul divorzio», 18 giugno 2009). E forse non è arbitrario rilevare che, nell’ultimo Scalfari, il messaggio evangelico, tramite la mediazione di Martini, si salda con quello illuministico (ma anche su questo ovviamente torneremo).
Cade a proposito a questo punto cercare di capire come, nell’esperienza giornalistica di Scalfari, prima con L’Espresso, ma poi assai più significativamente con la Repubblica, un credo rimasto a lungo, almeno in Italia, sostanzialmente elitario e minoritario, come quello liberaldemocratico, abbia prima sfiorato e coltivato e poi conseguito un’audience così di massa.
Scalfari, non a caso additato da parte del «becerismo nazionale», lo scrive lui stesso, come «il cantore dell’élite» (Un discepolo di Voltaire..., cit.), ha compiuto il miracolo di costruire un pubblico non elitario intorno alle attenzioni, ai giudizi e persino, se si vuole, ai pregiudizi di un esiguo gruppo intellettual-politico, originariamente molto ristretto: tutto ciò senza venir meno ai presupposti fondamentali della propria esperienza, solo modellandoli “stilisticamente” (non mi viene in mente una parola più adatta), per renderli più ampiamente fruibili e circolabili.
La politica non è mai stata per Scalfari altro che uno dei campi – forse il più importante, ma di certo non esclusivo – di una “predicazione” ad amplissimo spettro: dove è essenziale non perdere mai di vista i punti di partenza originari (quelli già detti di una cultura sovranazionale, orientata al bene della collettività e del paese).
La politica
Poste queste premesse, la politica ne consegue. Ossia: fra i princìpi e i vari posizionamenti politici esiste in Scalfari un rapporto sempre molto stretto. Si capisce facilmente che, così stando le cose, tra la vocazione giornalistica di Scalfari e le mutevoli, incerte, spesso ambigue e laceranti vicende politiche italiane, si sarebbe aperta una contraddizione permanente e prevalentemente insanabile.
Il primo numero della Repubblica è in edicola il 14 gennaio 1976. Fra il 1975 e il 1976 le grandi avanzate comuniste alle elezioni regionali, prima, e poi a quelle politiche sembrano aprire una nuova fase politica in Italia: Moro, da una posizione di forza all’interno della Dc, teorizza l’esigenza di un’apertura e la legittimità di un’alternanza; Berlinguer, egemone nel Pci, elabora la persino più avanzata «strategia del compromesso storico», che prevede un’alleanza, sia pure temporanea (ma quanto non si sa) tra le due principali forze parlamentari italiane, la Dc e il Pci.
Ma si tratta di una brevissima stagione: stroncata, da una parte, dall’apertura di una durissima strategia terroristica, la quale culmina nel rapimento e nell’assassinio di Moro), prolungandosi tuttavia dolorosamente negli anni successivi; dall’altra, dalla pronta riaffermazione, all’interno dei partiti di centro-sinistra, delle posizioni più oltranziste e conservatrici (il cosiddetto Caf: l’alleanza organica di Bettino Craxi, Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani).
Si potrebbe dire che, nella sostanza, la battaglia di Scalfari consista nel tentare di ricondurre l’Italia entro gli schemi politico-istituzionali di un normale paese democratico europeo. Perciò, il primo obiettivo è la denuncia di quel tessuto segreto di complicità e di oscure alleanze, che ha avvelenato così spesso dietro le quinte la vita politica e civile del nostro paese e che tende facilmente a sconfinare nell’eversione.
Esemplari, in questo senso, sull’Espresso, la pentola scoperchiata della «congiura De Lorenzo» (Il processo De Lorenzo, 19 novembre 1967; e altri); e, sulla Repubblica, il durissimo atto d’accusa contro la cellula massonica di Licio Gelli e la P2 (Hanno venduto anche l’anima, 21 maggio 1981).
Rientra in un certo senso in questo capitolo anche l’appoggio incondizionato fornito alla magistratura ai tempi di Tangentopoli (Con i cinque di Mani Pulite, 26 gennaio 1993), e, più in generale, in tutte le occasioni – non poche, purtroppo – in cui in Italia si sono sollevati i macigni delle complicità e delle omertà, per scoprire verminai infiniti.
Osservazioni non dissimili si potrebbero fare a proposito dell’atteggiamento tenuto nei confronti di alcuni dei più significativi esperimenti politici e di governo compiuti in Italia nel corso degli ultimi trent’anni. Intendo, ovviamente, Bettino Craxi e Silvio Berlusconi.
Scalfari, traducendo in linguaggio politico italiano le sue convinzioni, avrebbe potuto essere socialista (e infatti è stato in parlamento come deputato socialista dal 1968 al 1972). Ma gli ha sbarrato la strada l’involuzione pesantissima, la «mutazione morfogenetica» della compagine socialista, di cui Craxi è stato il principale artefice.
Quanto a Berlusconi, si potrebbe dire che ha rappresentato la negazione assoluta delle più profonde convinzioni etiche e civili di Eugenio Scalfari, il quale peraltro, senza farsi molte illusioni, ne ha visto da subito le profonde connessioni con il quadro già in precedenza degenerato dell’assetto politico italiano.
Ne è discesa una battaglia senza quartiere contro scelte politiche, civili e comportamentali, di cui Berlusconi, presidente del Consiglio o capo della frazione denominata Popolo della libertà, è stato in tutti questi anni protagonista ed emblema (battaglia, del resto, continuata in perfetta continuità dalla Repubblica, quando nel 1996 ne ha assunto la direzione Ezio Mauro).
Su questo sfondo, non precisamente positivo né idilliaco, colpiscono in Scalfari – prodotto, appunto, di curiosità intellettuale, ma anche della constatazione che nel suo proprio confine o territorio naturale c’era poco da raccattare – la ricerca di personalità e di atteggiamenti e, conseguentemente, di prospettive, che possano essere foriere di soluzioni alternative al terribile ristagno del mondo politico italiano.
È il caso di Ciriaco De Mita (Ecco la Dc. «I suoi vizi, le sue virtù», 9 settembre 1982), in quel momento segretario politico della Dc; e, in forma forse ancor più marcata, di Enrico Berlinguer (nella leggendaria intervista del 28 luglio 1981, Dove va il Pci?, e nell’articolo scritto mentre il leader comunista stava morendo, Straniero in patria, 10 giugno 1984).
Non ho lo spazio per entrare di più nel merito di questa inesauribile ricerca degli spazi e delle strade utili, anzi necessarie, a reimpostare le fondamenta stesse della lotta politica in Italia.
Mi limiterò a osservare che le motivazioni principali di tale ricerca appaiono tre: lo sforzo di superare una «democrazia bloccata», che, appunto perché tale, si corrompe e degrada; la ricerca, conseguentemente, delle condizioni destinate a favorire una vera «democrazia dell’alternanza»; e, last but not least, «la questione morale», il terreno e l’insieme delle motivazioni, per cui Scalfari arriva ad avere tanta ammirazione (e forse affetto?) per Enrico Berlinguer, che ne fu un cultore convinto e fermissimo.
Su questi versanti alternativi le speranze nutrite – e alimentate – da Scalfari non vanno sempre a buon fine. De Mita viene, per l’appunto, sopraffatto dal Caf e rispedito nella morta palude Dc; Berlinguer, dopo l’assassinio di Moro, è respinto anche lui ai margini, e costretto a ripiegare nella trincea, anch’essa alquanto improbabile, dell’alternativa; e poco dopo in quella trincea, se si deve prestar fede alla stessa ricostruzione di Scalfari, ne muore.
Qualche buona notizia viene dalla scelta occhettiana della Bolognina (E Occhetto ha intonato la Marsigliese, 22 gennaio 1989), che sembrerebbe aver inserito definitivamente il Pci (o meglio quel che ne sarebbe restato) nel gioco democratico (escludendo però fin dall’inizio che questo potesse dar luogo, attraverso l’eventuale alleanza Pci-Psi, a una durevole e significativa «alternativa di sinistra», perché, scrive Scalfari con parole che risultano per lui significative fino ad oggi, «più passa il tempo e più tutte le forze politiche si rendono conto che solo dal centro si possono governare società complesse» [tondo mio]).
Parole di forte apprezzamento sono pronunciate in occasione della formazione, di fronte alla crisi incombente, del governo Ciampi.
Parole di apprezzamento sono da Scalfari pronunziate anche nei confronti del secondo governo Prodi (Il premier ha la testa più dura di Zidane, 28 gennaio 2007), in occasione soprattutto della bersaniana «lenzuolata» di liberalizzazioni (anche se nell’occasione Scalfari avverte il bisogno di precisare: «Personalmente sono anch’io – nel mio piccolo non bocconiano – un fautore del libero mercato senza però attribuirgli quelle virtù taumaturgiche che altri gli riconoscono»).
Dell’incondizionato appoggio al governo Monti, che è anch’esso, secondo Scalfari, «tecnico» ma al tempo stesso pienamente «politico», cioè costituzionalmente legittimato, basti rilevare che esso appare ancor più coerente con le posizioni scalfariane classiche di quanto non possa apparire a prima vista.
In generale parlando, però, non si potrebbe dire facilmente che la predicazione scalfariana, pure così eloquente, metta capo a un durevole, apprezzabile e consistente cambiamento. «Desolato» non è apprezzamento che ben si adatti a Eugenio Scalfari, sempre teso a contrastare e superare le difficoltà che di continuo gli si frappongono.
E pure un tratto di desolazione risuona nelle sue parole, quando contempla dar vicino quel che si è stati tentati a un certo punto di considerare la definitiva decadenza italiana.
Nell’articolo Meno male che c’è Fini (29 marzo 2009), anche questo espressivo fin dal titolo, commentando il Congresso del Popolo delle libertà, uscito di nuovo vincitore dalle ultime elezioni, Scalfari osserva che nel lungo discorso di Berlusconi non c’è neppure «una menzione», anzi, neppure il concetto della divisione dei poteri: «cioè di Stato di diritto».
Del resto, la sua fortuna politica, nonostante ciò, nel nostro paese si spiega bene: egli, infatti, «fa appello ad una costante psicologica degli italiani: l’antipolitica» (tondo mio).
Questa costante spiega a sua volta perché «i tentativi di rivoluzione liberale [la citazione gobettiana non è probabilmente casuale] in questo paese sono sempre falliti»: e ciò «per il conservatorismo innato nella destra e nella sinistra». Tali tentativi, storicamente – e l’elenco ha una sua pregnanza, che vorrei fosse tenuta presente nella valutazione di questa sintesi – si riducono a: il quindicennio giolittiano del primo Novecento; la fase riformatrice di De Gasperi-Vanoni; il riformismo comunistico-socialdemocratico in alcune regioni italiane centro-settentrionali; il triennio prodiano 1996-98, breve, e per giunta abbattuto proprio dallai radicalità di una certa sinistra. Siccome gli ultimi due esempi appaiono caricati di un’eccessiva benevolenza, si potrebbe commentare: c’è poco da stare allegri.
Nell’articolo Il grande seduttore, che risale ai tempi della prima vittoria elettorale di Berlusconi (30 marzo 1994), viene data una spiegazione più politica di quell’evento: i suoi oppositori si sono arroccati a sinistra, invece di conquistare il centro (come si vede, questo è un motivo che ritorna). E però, commenta amaramente Scalfari, anche in caso contrario avrebbero perso lo stesso: perché la voglia del «fai da te» si è impadronita della maggioranza degli italiani.
Il male, dunque, è più profondo di quanto potrebbe apparire: la grande abilità di Berlusconi è consistita nell’intercettarlo e farlo proprio. «Il vero ammalato» conclude Scalfari «è proprio quella società civile che si propone in teoria come medico terapeuta».
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