Raccogliere i dati sui femminicidi serve a fare memoria, dare un nome a persone spesso raccontate con numeri e a offrire il contesto. Per questo il movimento transfemminista Non una di meno nel 2020 ha reso strutturata l’attività di raccolta di informazioni attorno ai femminicidi: una forma di attivismo e un lavoro di rilevanza pubblica e politica, che manca nelle statistiche ufficiali e dalla narrazione mediatica, con l’Osservatorio nazionale femminicidi lesbicidi trans*cidi.

L’ultimo aggiornamento è dell’8 febbraio: «3 femminicidi, 1 suicidio di una donna, 1 suicidio di un uomo trans, 1 caso donna scomparsa, e 2 casi in fase di accertamento. Si tratta di morti indotte da violenza di genere», si legge sul sito dell’Osservatorio, dai 14 ai 62 anni. Bisogna però aggiungere altri due femminicidi: l’8 febbraio Eleonora Guidi, 34 anni, è stata uccisa a coltellate dal compagno, che poi ha tentato il suicidio, nel fiorentino. La coppia aveva un bambino di neanche due anni.

Il 9 febbraio, Cinzia D’Ares, 51 anni, è stata uccisa dal marito che poi ha tentato di uccidersi nel torinese. E negli stessi giorni il compagno di Jhoanna Nataly Quintanilla, scomparsa il 24 gennaio, ha confessato di averla uccisa. Le ricerche del cadavere sono ancora in corso.

Il monitoraggio

Non una di meno ha poi contato cinque tentati femminicidi. L’ultimo nel mantovano: una donna di 38 anni, ora ricoverata, è stata colpita a martellate sul capo dall’ex partner. «Monitoriamo i tentativi di femminicidio e anche le persone che si tolgono la vita di qualsiasi sesso e genere per motivazioni che possono essere ricondotte a violenza di genere verso le persone Lgbtq», spiega Laura Bartolini dell’Osservatorio di Non una di meno.

È rilevante capire, racconta, chi era la persona uccisa, l’età, l’identità di genere, l’occupazione, chi era l’autore del femminicidio, l’esistenza di denunce. O, ancora, se ci sono figli minori che rimangono orfani, se c’è violenza assistita, se è coinvolta una persona con disabilità o una sex worker. I dati raccolti sono utili sia per un’analisi della dimensione strutturale del fenomeno sia come strumento di discussione interna.

Il movimento si sta preparando allo sciopero dell’8 marzo, con cortei in diverse città. Anche se cadrà di sabato, «abbiamo scelto di non lasciare quella giornata vuota» e di «promuovere lo sciopero transfemminista dal lavoro, dal lavoro di cura, dai consumi», con particolare attenzione a quelle forme di lavoro povero, intermittente, precario, nella ristorazione, nel commercio, nel turismo e nella cultura.

I fondi antiviolenza

I femminicidi sono l’apice di una violenza fatta di atti persecutori, maltrattamenti, stalking, violenza psicologica ed economica. Gli ultimi dati Istat mostrano una chiara crescita delle chiamate al numero antiviolenza 1522. All’incremento delle segnalazioni non è però corrisposta alcuna misura strutturale da parte delle istituzioni, anzi.

«Siamo in attesa del nuovo piano nazionale, dopo la scadenza di quello vecchio già prorogato di un anno», spiega Antonella Veltri, presidente di D.i.r.e (Donne in rete contro la violenza), una rete di organizzazioni che gestisce 117 centri antiviolenza (Cav) e 66 case rifugio.

I Cav hanno però «difficoltà a causa della poca stabilità dei finanziamenti», prosegue Veltri: «Non c’è continuità nell’erogazione dei fondi», soprattutto a causa del «passaggio dallo stato alle regioni, e l’autonomia differenziata colpirà anche il sistema antiviolenza».

C’è però anche un altro elemento: i pochi e scarsi finanziamenti a disposizione vengono assegnati anche a realtà che confondono la violenza con il conflitto e sostengono la mediazione familiare. La rete D.i.r.e. è attiva anche nel sostegno di persone con background migratorio con il lavoro di mediatrici. Due delle donne uccise nel 2025 erano di origini straniere, come anche la 38enne aggredita dall’ex nel mantovano.

La narrazione

La narrazione è stata a lungo condizionata dalla provenienza delle persone coinvolte. «Nel 2013, quando è entrato il termine femminicidio nella narrazione dei media, se l’omicida era di origini straniere il tasso di copertura era superiore rispetto al dato fattuale e rispetto al caso di un omicida cittadino italiano, indipendente dalla nazionalità della vittima», spiega Elisa Giomi, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’università Roma Tre e commissaria dell’Agcom.

«Se sia la vittima sia l’autore del reato erano stranieri il tasso di copertura era di molto inferiore» mentre «nel caso di una donna italiana e un autore straniero, l’alterità della cultura veniva messa in primo piano». Nel tempo, dice Giomi, questa narrazione è cambiata e negli ultimi anni, grazie ai Cav e ai movimenti femministi, «termini come patriarcato sono stati introdotti indipendentemente dalla nazionalità».

Negli ultimi giorni, però, c’è stato «un ritorno infestante del termine raptus», soprattutto nel racconto del femminicidio di Guidi, una narrazione condannata anche dall’Ordine dei giornalisti. «È un effetto rebound, che mira a ripristinare gli equilibri iniziali. Parlare di raptus significa derubricare la violenza a una forma di aberrazione individuale», dice Giomi, «una narrazione patologizzante che mette in ombra la chiave sistemica». Ma, conclude Giomi, «il femminicidio è sempre preceduto da una storia di violenza, di controllo psicologico e violenza economica».

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