Era l’11 novembre 2023 quando Giulia Cecchettin è stata uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta. Ieri, quasi un anno dopo, Turetta è uscito per la prima volta dal carcere ed è stato interrogato nell’aula della Corte d’Assise di Venezia. Ha confessato di aver detto «una serie di bugie» nel primo interrogatorio con il pubblico ministero Andrea Petroni, poi ha ammesso la premeditazione, dicendo che ha iniziato a pensare di uccidere Giulia dal 7 novembre, proprio in quei giorni ha stilato una «lista delle cose da fare», come acquistare lo scotch, una mappa e i coltelli. Ieri ha anche depositato una memoria di una quarantina di pagine scritta «in più volte nel tempo, ricostruendo quanto era accaduto, per mettere ordine».

Nella stessa aula, tra le parti civili, c’era anche il papà di Giulia Cecchettin, Gino, era la prima volta che i due si incontravano dopo la morte di Giulia. Alla prima udienza, che si è tenuta il 23 settembre, infatti, Turetta non si era presentato. Non c’è però la sorella di Giulia, Elena Cecchettin, e non sarà presente nemmeno alla prossima udienza in programma lunedì 28 ottobre.

La sorella della vittima si è esposta fin dai primi giorni dopo quell’11 novembre, trasformando un dolore privato in una questione politica collettiva. Il 20 novembre 2023, pochi giorni dopo il ritrovamento del corpo di Giulia, in una lettera inviata al Corriere del Veneto aveva detto che «è responsabilità degli uomini in questa società patriarcale, dato il loro privilegio e il loro potere, educare e richiamare amici e colleghi non appena sentano un minimo accenno di violenza sessista» e aveva denunciato l’assenza delle istituzioni: «Il femminicidio è un omicidio di stato, perché lo stato non ci tutela, perché non ci protegge». La sua denuncia non si era limitata a quella lettera, in tutti questi mesi si è esposta cercando di smuovere le coscienze – soprattutto quelle maschili – tanto da ricevere la nomina di «persona dell’anno» dall’Espresso.

Le sue parole «per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto», tratte da una poesia dell’architetta e attivista femminista peruviana Cristina Torres-Cáceres, sono state scritte su striscioni, muri e post di Instagram, sono state urlate nelle piazze delle principali città italiane, in particolare durante le manifestazioni del 25 novembre.

Insieme a Elena, anche il padre Gino ha assunto un ruolo attivo, esponendosi pubblicamente più volte e scrivendo il libro Cara Giulia, quello che ho imparato da mia figlia, in cui ha fatto un appello alle famiglie, alle istituzioni, ai ragazzi, alle scuole, sperando che altre persone si ponessero le sue stesse domande. Il libro è servito a finanziare “Fondazione Giulia”, il progetto promosso da Gino Cecchettin che ha lo scopo di fare formazione contro la violenza di genere, supportare le vittime di violenza e le associazioni attive in Veneto.

La decisione di non esserci

Dopo il ruolo di primo piano, questa volta Elena Cecchettin ha deciso di non esserci e «non per disinteresse», spiega in una storia sul suo profilo Instagram, «ma per prendermi cura di me stessa».

Nella storia continua dicendo che sono più di undici mesi che ha incubi e che fatica a dormire. «La mia salute mentale e soprattutto quella fisica ne hanno risentito. Ho perso il conto delle visite mediche che ho dovuto fare nell’ultimo anno. Seguirò a distanza anche tramite i miei legali, tuttavia non parteciperò». Andare in aula oggi le avrebbe creato «una fonte di stress enorme», costringendola a rivivere quello che ha provato a novembre dell’anno scorso. «Voglio condividere tutto questo – ha concluso – perché penso sia giusto proteggersi quando ne abbiamo bisogno. Sono umana, come tutt3 non sono invincibile».

Se Elena Cecchettin non si è presentata in aula, suo padre Gino ha deciso di lasciarla alla fine della mattinata, dopo che l’avvocato di Turetta, Giovanni Caruso, aveva detto che di lì a poco avrebbero approfondito la vita del suo assistito. «Io so già chi è Filippo», ha detto il padre di Giulia ai giornalisti presenti.

«Il momento più doloroso è stato sapere cosa ha passato mia figlia negli ultimi momenti della sua vita. Non è questo il punto. Abbiamo capito chi è Filippo Turetta, il suo avvocato vuole capirne di più. Per me è chiarissimo. Quello che emerge oggi è che la vita del prossimo è una cosa sacra e bisogna rispettare la vita degli altri».

Tutte le vittime

L’assenza in aula e le parole scritte da Elena Cecchettin fanno luce sulle difficoltà che possono vivere tutte le persone che indirettamente sono coinvolte nei femminicidi: genitori, fratelli, sorelle, figli. In particolare, sono i figli spesso a subire le conseguenze maggiori. In alcuni casi assistono per anni alle violenze attuate dal padre nei confronti della madre perché, come dimostrano i dati, è proprio la casa il luogo in cui avviene la maggior parte dei maltrattamenti. I report settimanali del Dipartimento della pubblica sicurezza confermano che le donne muoiono per mano soprattutto di compagni ed ex compagni. Secondo l’ultimo rapporto aggiornato al 20 ottobre, quest’anno sono state uccise 77 donne in ambito familiare o affettivo, di cui 48 per mano del partner o ex partner.

Tra le “vittime” collaterali dei femminicidi ci sono quindi spesso i bambini. È difficile però quantificare quanti siano. Come spiega l’impresa sociale Con i bambini, «non ci sono stime ufficiali sugli orfani delle vittime di femminicidio in Italia».

Quei bambini sono definiti dall’associazione «orfani speciali» perché «sono doppiamente orfani. La perdita della madre per mano del padre significa anche che l’altro genitore non ha più contatti con i bambini e questi, divenuti maggiorenni e consapevoli dell’accaduto, quasi sempre non vogliono più vederli». E, oltre a trovarsi senza genitori, devono far fronte a un’esperienza traumatica complessa in cui, scrive Save the children, «al dolore della perdita si aggiungono numerose difficoltà, di natura diversa: materiali, emotive, sociali e giudiziarie».

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