Per il sociologo Antonio Ciniero, autore del libro “Le politiche dell’esclusione” – Meltemi 2024, la prima sperimentazione in chiave repressiva delle politiche per gestire i flussi migratori avvenne in Puglia nel 1991 con lo sbarco dei cittadini albanesi. Tra corsi e ricorsi storici, si arriva alla situazione in cui ha trovato la morte il bracciante indiano Satnam Singh nelle campagne di Latina
I centri di accoglienza di grandi dimensioni, i ghetti agricoli, i campi rom attrezzati e gestiti dalle istituzioni, anche se caratterizzati ognuno da elementi distintivi e peculiari, sono accomunati dal fatto di essere luoghi che producono in maniera strutturale forme di esclusione, di inclusione subalterna e differenziale di un numero significativo di persone. Ma non si tratta di un fenomeno casuale. È l’esito della maniera in cui sono state organizzate le politiche pubbliche in Italia negli ultimi trent’anni.
A ricostruire il quadro in cui le politiche migratorie hanno creato le condizioni per determinare forme di esclusione dalla società dei cittadini stranieri, sia sul piano dei requisiti giuridici di residenza attraverso i processi di clandestinizzazione, sia spingendo i segmenti più poveri della popolazione resi istituzionalmente deboli dai dispositivi normativi verso luoghi marginali, segreganti ed escludenti, come i Cara, gli hotspot, i ghetti agricoli, le baracche e i campi rom, è il sociologo delle migrazioni all’università del Salento e ricercatore Istat, Antonio Ciniero, in “Le politiche dell’esclusione”, Meltemi 2024.
Ciniero prova a rispondere ad alcune domande: qual è la genesi dei centri di accoglienza per i migranti? Come sono nati i ghetti agricoli in Italia? Cosa hanno in comune con i campi rom? E ancora: come si vive in questi luoghi? E infine: quali effetti hanno sulle traiettorie di vita delle persone che li abitano e, più in generale, sul resto della società? Sono le domande a cui il sociologo ha tentato di rispondere, a partire da un’attività di ricerca sul campo condotta all’interno di questi luoghi negli ultimi dieci anni.
«Luoghi di vita e di comprensione del reale, di processi concreti e simbolici che non riguardano solo chi ci vive, ma la società contemporanea nel suo complesso», spiega a Domani: «L’obiettivo di questo lavoro è stato quello di analizzare il modo in cui i centri di accoglienza (e, parallelamente, il sistema di accoglienza), i ghetti agricoli e i campi rom abbiano contribuito, nel solco di una legislazione sulle migrazioni profondamente contraddittoria, a determinare forme di esclusione sociale, o di integrazione subalterna».
I ghetti agricoli
È in particolare nei ghetti agricoli della Puglia che il sociologo ha condotto negli anni i propri studi, a partire dal 2016. Il suo punto di osservazione privilegiato è stato Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia, un insieme di ghetti suddivisi per nazionalità, «composti da baracche precarie e malandate, fatte di lamiere e di teli che si muovono con il vento».
In questo non-luogo Ciniero è entrato in contatto con il “ghetto dei bulgari”, oggi sgomberato, osservando «un grande fossato attiguo alle costruzioni, completamente sommerso di rifiuti di ogni genere, che nessun servizio d’igiene pubblica ha mai provveduto a smaltire, intorno al quale i ragazzini giocano e corrono».
E ha raccolto storie di vita come quelle di Ivan, uomo di oltre cinquant’anni che vive in baracca nei mesi dell’anno che vanno da maggio ad ottobre in Puglia, quelli in cui è più alta la richiesta manodopera per la raccolta dei prodotti agricoli, lavorando nelle campagne insieme alla moglie e ai figli maschi, e mettendo così da parte i soldi per trascorrere l’inverno in Bulgaria nella sua casa di proprietà.
Oppure, sempre in provincia di Foggia, sono state raccolte le storie di ragazzini di 16 o 17 anni di origine africana, che, pur di avere la possibilità di inviare un po’ di denaro alla famiglia, decidevano di vivere in una baraccopoli, rifiutando le forme di accoglienza e tutela che la legislazione italiana prevede per i minori.
Spiega il sociologo: «Nel corso degli anni, gli insediamenti informali hanno perso sempre più la loro originaria funzione di solo luogo di concentrazione per i braccianti stagionali per divenire anche un rifugio in cui trovare forme di solidarietà intracomunitaria che permettono di sentirsi al sicuro».
E poi lancia l’accusa: «Ancora oggi, a distanza di oltre trent’anni dalla scoperta dei ghetti agricoli in Italia, l’approccio istituzionale continua ad essere declinato in termini prevalentemente emergenziali e congiunturali. Gli interventi posti in essere dalle istituzioni locali, quando non sono state mere azioni di sgombero, hanno riguardato l’allestimento di foresterie o tendopoli, al posto (o accanto) agli insediamenti informali».
E, tuttavia, è un fatto ormai noto che l’esistenza dei luoghi informali, dei ghetti in cui i braccianti agricoli trovano precario riparo, non è una prerogativa della Puglia, o delle altre regioni dell’Italia meridionale, basti pensare a luoghi come Saluzzo, in Piemonte, alla zona del Chianti, in Toscana, a quella della Franciacorta, in Lombardia, o alla pianura pontina, nel Lazio, proprio ieri di nuovo salita agli onori della cronaca per l’atroce morte di un bracciante, Satnam Singh.
La genesi dell’esclusione
Ma tornando alle politiche di esclusione nei confronti dei cittadini stranieri, e alla Puglia, tutto comincia lì, nella regione che Antonio Ciniero identifica come «una sorta di laboratorio per la sperimentazione, in chiave repressiva, delle politiche italiane (ed europee) per gestire i flussi migratori».
È l’agosto del 1991, nel porto di Bari. È lì che arrivò la nave Vlora, carica di un’umanità di origine albanese gonfia di speranza e dolore, con a bordo 20000 persone. Fu la prima volta che le istituzioni repubblicane gestirono i flussi migratori. E lo fecero con una brutalità tale che Tonino Bello, allora vescovo di Molfetta, denunciò con queste parole: «le persone non possono essere trattate come bestie, prive di assistenza, lasciate nel tanfo delle feci, mantenute a dieta con i panini lanciati a distanza, come allo zoo, senza il minimo di decenza in quel carnaio greve di vomiti e di sudore». Questa fu l’accoglienza riservata ai cittadini albanesi in fuga dalla fame dal governo in carica dell’epoca, uno degli ultimi esecutivi guidati da Giulio Andreotti (all’interno Vincenzo Scotti, all’immigrazione Margherita Boniver).
Furono loro, i ministri, qualche giorno prima dello sbarco della Vlora, all’interno di una sorta di “gabinetto di guerra”, a decidere che nessuna nave avrebbe avuto l’autorizzazione ad entrare nei porti italiani e che i comandanti che avrebbero violato tale decisione sarebbero stati incriminati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. A leggere le pagine che trattano quelle vicende nel saggio “Le politiche dell’esclusione”, sembra di ripercorrere le giornate vissute dall’umanità disperante dell’estate del 2019 di fronte alla politica dei porti chiusi del ministro degli interni Matteo Salvini.
Superare i campi
C’è dunque la genesi delle attuali politiche che criminalizzano i poveri e i migranti nel libro di Antonio Ciniero, attraverso una lunga carrellata di fatti storici che le ripercorrono: dall’istituzione del campo di Manduria (sempre in Puglia) dove furono “accolte” le persone in fuga dal Nord Africa nel 2011, alla descrizione dei luoghi fatiscenti in cui ancora oggi vivono i braccianti dell’est Europa che contribuiscono con il loro lavoro al fatturato delle imprese italiane. Ci sono quindi i fatti che raccontano il modo in cui le istituzioni italiane si sono rapportate nel tempo con il mondo della migrazione e, soprattutto, con l’organizzazione di quella che viene definita comunemente accoglienza. Ma ci sono anche, infine, le proposte per superare quelle politiche.
«Lavorare per superare un luogo che produce esclusione è possibile, su questo terreno l’Italia nella seconda metà del Novecento ha maturato significative esperienze nel superamento delle baraccopoli sorte nel secondo dopoguerra nelle grandi città italiane come Roma, Milano e Torino, quando, attraverso la legge n. 865 del 1971, si avviò un ingente programma di finanziamento pubblico attraverso il quale i comuni italiani costruirono abitazioni di edilizia residenziale pubblica nelle quali trasferire chi abitava nelle baracche», sostiene il sociologo.
Cinquant’anni dopo, invece, la storia si ripete due volte, come tragedia e come farsa, soprattutto nei confronti dei cittadini stranieri.
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