Il comitato dei rappresentanti degli stati membri non ha trovato la maggioranza per approvare il testo europeo che aveva l’obiettivo di tutelare i diritti dei lavoratori della gig economy. Si è arrivati a questo risultato dopo due anni di intensa attività di lobbying esercitata dalle piattaforme
Un’occasione sprecata, con la fine della legislatura europea dietro l’angolo. A tre giorni dalle festività natalizie e dopo poco più di una settimana dall’accordo provvisorio raggiunto il 13 dicembre scorso, la direttiva europea sul lavoro di piattaforma si blocca fino a data da destinarsi. Il comitato dei rappresentanti degli stati membri non è riuscito a garantire una maggioranza per rendere il testo definitivo. Una normativa ambiziosa che ha lo scopo di assicurare ai lavoratori tutele e diritti finora inesistenti, e che dopo due anni non smette di scontrarsi con le attività di lobbismo esercitate dalle piattaforme della gig economy.
«Da quel che emerge» spiega a Domani Antonio Aloisi – professore di Diritto del lavoro europeo e comparato e autore del libro Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano – «diversi stati hanno opposto resistenza alla versione di compromesso». Stando alle prime indiscrezioni, non c’è stato nemmeno un voto formale sul testo perché è subito apparso chiaro che non ci sarebbe stata una maggioranza.
«Nonostante gli sforzi del parlamento, della Commissione e della delegazione spagnola, i governi nazionali hanno scelto di nicchiare. Alcuni, pare, sedotti dalle sirene dei portatori di interessi delle piattaforme il cui attivismo è infaticabile» continua Aloisi. «Altri paesi hanno invece in agenda una legge nazionale, e dunque hanno scelto di combattere altre battaglie. Nel mezzo paesi come l’Italia, dalla postura ondivaga». Insieme a Estonia, Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca, Francia, Ungheria anche Italia si è infatti schierata contro l’accordo.
D’altro canto sarebbe stato difficile aspettarsi un risultato diverso. A 24 ore dal voto l’Eurodeputata italiana Elisabetta Gualmini (S&D), a capo dei negoziati per la direttiva, aveva espresso particolari preoccupazioni soprattutto sulla presidenza francese. Il 20 dicembre scorso infatti il ministro del lavoro francese Olivier Dussopt aveva annunciato un voto contrario da parte dell’Eliseo, sostenendo come l’accordo provvisorio raggiunto fosse molto diverso dal mandato del Consiglio europeo.
Al sito web Euractiv Gualmini aveva dichiarato come un voto contrario francese sarebbe stato «completamente inaccettabile e incomprensibile» e avrebbe reso il presidente Emmanuel Macron «un assassino dell’Europa sociale». E ancora: «Se l’accordo non dovesse passare venerdì – l’ultimo ostacolo politico prima dell’adozione definitiva – allora le lobby avranno vinto [...]».
Il punto cruciale di due anni di negoziati è infatti questo: il potere delle multinazionali, nello specifico di Uber, nei confronti del governo francese e non solo. Un fatto acclarato anche dall’inchiesta giornalistica Uber files, che nel luglio 2022 aveva rivelato come tra il 2013 e il 2017 la piattaforma statunitense avesse agito pressioni politiche nei confronti dell’allora ministro dell’economia francese Emmanuel Macron. Il favore politico promesso da Macron era la modifica della regolamentazione sui trasporti, che avrebbe permesso a Uber di fare ingresso più facilmente nel mercato francese.
L’Eliseo ha criticato pubblicamente sin dall’inizio la proposta di direttiva, perché schierato a favore del mantenimento di rapporti di lavoro autonomi nel settore della gig economy. «C’è da ammettere che al tavolo del negoziato è mancata la voce delle “buone imprese”» dice Aloisi, «quelle che soffrono la concorrenza sleale di un modello di business in cui a robuste prerogative datoriali si accompagnano responsabilità liquide».
Lo scorso ottobre un report dell’Observatoire des Multinationales ha rivelato come Uber, Bolt e Wolt, aziende del settore del food delivery e dei trasporti, abbiano aumentato di molto gli incontri con i politici europei a Bruxelles tra aprile e giugno del 2021. Dallo stesso anno Uber ha destinato alle attività di lobbying al parlamento un budget di 700.000 euro, quattordici volte superiore rispetto a quello di dieci anni prima; e la piattaforma Wolt è passata da 75.000 euro del 2019 a 500.000 del 2021. Nell’anno della pandemia Deliveroo ha raggiunto invece i 200.000 euro, aumentando di venti volte il budget dedicato precedentemente.
Lobbismo che si è trascinato nel tempo con l’obiettivo di fronteggiare la subordinazione dei lavoratori, che porterebbe a un aumento del costo del lavoro per le piattaforme digitali, ad una contrattazione collettiva che prevede diritti sociali e assistenza sanitaria, all’introduzione della disoccupazione e dei contributi pensionistici per i lavoratori. Motivazioni che hanno evidentemente inciso sull’affossamento della proposta di direttiva.
Cosa prevede la Direttiva europea sul lavoro di piattaforma
L’economia delle piattaforme è un gigante a più teste che ancora si muove senza confini precisi soprattutto per quanto riguarda i diritti dei lavoratori. Il testo della direttiva, che è iniziato a circolare già il 13 dicembre scorso dopo l’accordo provvisorio tra Commissione, Consiglio e parlamento europeo, si basava infatti sulla presunzione di subordinazione dei lavoratori: non li avrebbe automaticamente trasformati in dipendenti da un giorno all’altro, ma dato la possibilità di portare in tribunale una piattaforma – ad esempio di food delivery, come Glovo o Deliveroo – per contestare un eventuale condizione di falsa autonomia. In capo alle aziende l’onere della prova, ovvero l’obbligo di dimostrare il contrario per evitare l’assunzione del lavoratore.
I requisiti previsti per innescare la subordinazione sono cinque, e riguardano il controllo sull’assegnazione dei compiti, la distribuzione e lo svolgimento delle mansioni, le restrizioni sull’orario di lavoro e sul limite massimo del guadagno, la supervisione delle prestazioni e l’imposizione di un certo tipo di comportamento o di aspetto (una divisa, ad esempio) sul lavoratore. Per accertare la subordinazione dovrebbero essere soddisfatti almeno due di questi requisiti. Una possibilità che finora non era garantita.
Nella precedente bozza di testo del dicembre 2021 si parlava di tre requisiti su sette, esattamente come previsto dalla celebre Ley Rider spagnola entrata in vigore due anni fa. Ogni stato membro potrebbe comunque introdurre più requisiti, anche se non è mai stato del tutto chiaro se un aumento della lista combaci con una proporzionalità (due su cinque, tre su sette, e via dicendo).
Apparentemente sullo sfondo ma non meno importanti sono gli aspetti legati alla trasparenza, alla supervisione umana sui sistemi decisionali e di monitoraggio automatizzati, all’utilizzo e al trattamento dei dati personali e alle sanzioni previsti dalla normativa.
Attualmente i lavoratori delle piattaforme digitali non hanno accesso a informazioni utili per comprendere il funzionamento degli algoritmi che definiscono il loro lavoro quotidiano, né tantomeno hanno coscienza del modo in cui il loro comportamento potrebbe influire sulle decisioni prese dai sistemi automatizzati. Nel caso in cui il testo non cambierà al prossimo voto, le piattaforme saranno obbligate a dare spiegazioni su questo fronte ai lavoratori e ai vari rappresentanti.
A questo si lega anche il divieto, per le piattaforme digitali, di lasciare i sistemi automatizzati liberi di prendere decisioni importanti come i licenziamenti o la sospensione dell’account di lavoro senza la supervisione di un essere umano. Inoltre, le aziende sarebbero obbligate a valutare l’impatto di queste decisioni.
Di grande rilevanza è il divieto imposto dalla normativa sull’elaborazione di alcuni dati personali: le piattaforme non possono utilizzare a loro vantaggio convinzioni personali dei lavoratori, scambi privati tra colleghi né dati e informazioni inerenti l’attività extra lavorativa. Il parlamento europeo aveva poi richiesto esplicitamente l’introduzione di sanzioni finanziarie per il mancato rispetto della normativa, ma l’accordo provvisorio raggiunto lo scorso 13 dicembre – e sul quale gli stati membri non hanno raggiunto una maggioranza – lascia però a ogni paese la decisione ultima.
La direttiva si applica a piattaforme per la consegna dei pasti come Deliveroo e Uber, ma anche a quelle per il lavoro digitale come Upwork e Fiverr. La lista è lunga: secondo stime della Commissione europea le piattaforme sarebbero più di 500, raggruppando quasi 30 milioni di lavoratori di cui più di 5 milioni ritenuti erroneamente autonomi. Nel momento in cui il loro lavoro quotidiano dipende in buona parte dalle piattaforme, di autonomo c’è infatti poco.
Una normativa incompleta
Ci sono alcuni però sulla direttiva proposta. Si cala in mercati del lavoro di piattaforma tutt’altro che simili, definiti da politiche sul lavoro molto diverse tra stato e stato. Ed è qui che le piattaforme – soprattutto del food delivery e dei trasporti – hanno il maggior gioco: entrano nel mercato che gli appare meno resistente, ne sfruttano le vulnerabilità normative e si muovono in un’area grigia.
Non è previsto poi, e niente fa pensare che lo sarà la prossima volta, che le persone migranti abbiano delle tutele specifiche nel settore della gig economy. È difficile infatti pensare che le tutele previste dalla normativa europea possano essere esercitate da lavoratori in una condizione di grave vulnerabilità economica e sociale, che spesso lavorano illegalmente in condizioni di caporalato digitale perché non possiedono un permesso di soggiorno.
«Guardando al futuro» dice a Domani il professor Aloisi, «lo scenario più plausibile è quello del “too little, too late” (troppo poco, troppo tardi). A livello nazionale e locale, corti supreme e tribunali del lavoro hanno riconosciuto in molti casi l’esistenza di potere di controllo o quantomeno organizzazione appannaggio delle piattaforme. Il contenzioso strategico ha esposto vulnerabilità in fatto di protezione dei dati personali, parità di trattamento, salute e sicurezza, tutela sindacale e anche trasparenza e prevedibilità in fatto di sistemi decisionali automatizzati. In sintesi, non ci sono scuse. Il miraggio della flessibilità a buon mercato si è rivelato niente più che vuota retorica».
I negoziati continueranno da gennaio 2024 sotto una nuova presidenza belga. A quest’ultima spetta il testimone lasciato da quella spagnola, con l’obiettivo di mettere un punto alla direttiva prima delle prossime elezioni europee di giugno 2024. La questione più impellente, ora, riguarda il futuro del lavoro al quale l’Unione europea aspira.
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