L’anno scorso il caso di femminicidio ha travolto l’università di Padova. D.i.Re: «È cresciuta la sensibilità del territorio», non la risposta statale
Un anno fa non si sapeva ancora niente, i primi articoli risalgono alle ultime ore del 12 novembre. Lei non era tornata a casa dopo essere stata con l’ex fidanzato, la famiglia era preoccupata e il papà aveva sporto denuncia. Dal giorno seguente le notizie si moltiplicano: si accumulano dettagli, spunta un video in cui lui la aggredisce. Il 19 novembre viene arrestato in Germania. Lei non c’è, l’aveva già uccisa l’11 novembre. Tutti conoscono il suo nome: Giulia Cecchettin.
A quel femminicidio la società ha risposto inondando le piazze, riempiendo i muri di «Per Giulia bruciate tutto», contrapponendo al minuto di silenzio il minuto di rumore, reclamando confronti, piangendo, chiedendo giustizia. «Quel momento ha cambiato tutto», dice A.G. del collettivo padovano SqueerT. Il 20 novembre Padova, la città in cui Giulia Cecchettin e Filippo Turetta hanno frequentato l’università, era piena di persone. «In occasione del TDor (la giornata per ricordare le vittime dell’odio transfobico che ricorre il 20 novembre, ndr) avevamo organizzato una passeggiata. Poi è stato trovato il corpo di Giulia, non potevamo fare un corteo senza parlarne. Eravamo in contatto con la sorella Elena Cecchettin, che frequentava i nostri spazi e che ci ha detto di voler fare qualcosa. Quindi ci siamo organizzate. Alla fine, eravamo 15mila in piazza, c’era anche Elena. Eravamo un’onda gigantesca, una cosa così non si era mai vista».
Il cambiamento non ha attraversato solo le piazze, ma anche le scuole, le università, i luoghi di lavoro. «L’anno scorso ero in quinta superiore», continua A.G., «ricordo benissimo quando Valditara ha lanciato il minuto di silenzio, ma nessuno l’ha rispettato. Abbiamo fatto il minuto di rumore e sembrava che la scuola tremasse tanto è stato potente». È stata una rivendicazione collettiva, non solo limitata a chi solitamente si occupa di questioni di genere: «La mia professoressa di storia e filosofia era una donna composta. Durante il minuto di rumore è uscita in corridoio e ha urlato fortissimo». L’università di Padova è stata travolta, probabilmente perché Cecchettin e Turetta frequentavano quell’ambiente. Erano giovani come tanti, incontrati a un esame, in corridoio, in pausa pranzo. Gli spazi dell’università si sono riempiti di cartelli sui muri, lettere per Giulia, richieste di introdurre corsi di educazione sessuo-affettiva nelle scuole. È stata creata l’Assemblea universitaria transfemminista che, come racconta A.G., ha organizzato decine di assemblee, occupato, creato un gruppo di decostruzione maschile.
Una battaglia comune
In quei giorni in piazza non c’erano solo donne, ma anche persone anziane, uomini, ragazzi. Era una rivendicazione nuova, gridata da voci diverse. «Sia il 20 che il 25 novembre non era la solita piazza femminista che siamo abituate a vedere noi del collettivo. Io frequento le manifestazioni dalla prima superiore e siamo sempre state l’80 per cento donne. L’anno scorso invece quasi la metà erano uomini». E non solo giovani. In piazza dei Signori, durante un corteo, è sceso da casa sua un uomo, «avrà avuto settant’anni», dice A.G. «Aveva deciso di scendere perché si sentiva coinvolto. Abbiamo provato un mix di rabbia e tristezza, ma anche gioia perché la morte di Giulia non era l’ennesima morte vana, aveva portato a una nuova consapevolezza».
Durante le assemblee del collettivo SqueerT molti giovani hanno fatto emergere il tema della mascolinità. Dall’altro lato però il tema del not all men non è sparito. «Molti uomini sono andati sulla difensiva, hanno negato la matrice patriarcale della società e del femminicidio di Giulia Cecchettin, che ha dimostrato che chiunque può essere colpita», dice A.S., militante di Non una di meno Padova (Nudm). La Consultoria, cioè lo spazio transfemminista di Nudm che promuove la salute sessuale e contrasta la violenza con sportelli di ascolto, corsi e autoformazioni, durante quest’anno è stata più volte attaccata, sono stati rubati o strappati gli striscioni, incise svastiche sugli arredi esterni.
Nonostante il rifiuto di una parte della popolazione maschile, tante sono le persone che hanno deciso di unirsi alle rivendicazioni che collettivi e associazioni femministe e transfemministe portano avanti da anni. «Quest’anno tutta la città ha manifestato», aggiunge A.S.: «Le persone hanno preso spazio sia a livello di dibattito sia a livello di strade. Ed è fondamentale perché, una volta svelata la matrice patriarcale della società, se la si vuole rovesciare l’unico modo è quello di mobilitarsi».
Più consapevolezza
Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin sono aumentate le chiamate ai numeri antiviolenza, e questo, secondo A.S., è successo perché «si sono iniziati a riconoscere certi segnali come indicativi di situazioni pericolose». L’aumento delle richieste è confermato anche dal centro D.i.Re (Donne in rete contro la violenza) di Padova. «La settimana dopo che è stata trovata Giulia abbiamo ricevuto 89 richieste, ma noi a Padova ne avevamo circa 15 a settimana. Abbiamo un numero verde che ha tre linee attive 12 ore al giorno e poi due linee del numero fisso, in quei giorni non riuscivamo a lasciare la linea libera», dice Mariangela Zanni, consigliera nazionale di D.i.Re. Arrivavano chiamate da vittime di violenza, ma anche da amiche, amici, parenti, genitori.
«È cresciuta la sensibilità del territorio, c’è stata una presa di posizione sia da parte delle istituzioni che delle forze dell’ordine. Quello che non è cambiato è l’intervento dello stato, che non ha risposto in modo immediato all’aumento delle richieste», continua Zanni. Il numero delle chiamate di aiuto è cresciuto, ma l’organico del centro D.i.Re è rimasto lo stesso. A questo si aggiunge la questione economica: «Lo stato dice che ha investito più soldi rispetto ai precedenti governi per contrastare la violenza. Ma quei soldi non sono arrivati né ai centri antiviolenza né alle donne che dovrebbero ricevere il reddito di libertà, in più i fondi per la prevenzione sono addirittura calati».
Lo stato continua ad approcciarsi alla questione trattandola come «l’emergenza femminicidi». Non la analizza con un piano strutturato basato sull’educazione e sulla prevenzione, ma agisce ex post. Intanto però gruppi sempre più ampi della società chiedono un cambiamento. Quindi, anche oggi, a un anno di distanza, «per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto».
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