Negli ultimi 15 anni c’è stato un cambiamento: l’attenzione dei media e l’uso di termini precisi sono aumentati, ma perdono di significato. Ricerca dell’audience, sensazionalismo e un imperativo di velocità restituiscono una realtà distorta che nasconde la strutturalità della violenza
La domanda è giusta: perché l’ha uccisa? La risposta spesso è sbagliata. La narrazione della violenza di genere e dei femminicidi è ancora intrisa di stereotipi, romanticizzazione e sensazionalismo. Ne è un esempio il racconto dell’udienza del processo a carico di Filippo Turetta per il femminicidio dell’ex partner Giulia Cecchettin. Si è dato ampio spazio alle ragioni e dichiarazioni dell’imputato e all’incontro in tribunale con il padre della ragazza uccisa.
«C’è un’incapacità di distaccarsi dalla cornice episodica, che mette in ombra la matrice comune dei molti casi. Il femminicidio deve essere ricondotto immediatamente a una cornice coerente, alla violenza maschilista, che guarda alle cause culturali profonde. Prevale invece una narrazione sulla singola coppia e sui problemi personali», spiega Elisa Giomi, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’università Roma Tre e commissaria dell’Agcom.
La cornice coerente di cui parla Giomi emerge dai dati: dall’inizio dell’anno il ministero dell’Interno ha registrato 94 donne uccise, di cui 80 in ambito familiare e affettivo, 50 dal partner e dall’ex partner. Così i dati Istat relativi al numero antiviolenza 1522 registrano nei primi sei mesi del 2024 una crescita evidente. Nel primo trimestre, rispetto al 2023, le chiamate sono aumentate dell’83,5 per cento (17.880), nel secondo del 57,4 (15.109).
Un fenomeno strutturale
I numeri dimostrano la strutturalità della violenza, per cui occorre un lavoro da parte di tutti gli attori, compresi i media. A chiederlo in modo esplicito è la Convenzione di Istanbul che all’articolo 17 ritiene corresponsabili il settore dell’informazione e della comunicazione all’elaborazione, all’attuazione di politiche e linee guida per prevenire la violenza contro le donne e «rafforzare il rispetto della loro dignità». È «l’unico strumento europeo vincolante, ed è sotto feroce attacco delle destre», spiega Enrica Rigo, docente di Filosofia del diritto di Roma Tre, «perché fa riferimento al genere non come differenza sessuale, ma come costrutto sociale». C’è un rifiuto di riconoscere il patriarcato come sistema di oppressione.
Il lavoro dei collettivi femministi e dei centri antiviolenza (cav) ha portato a un cambiamento negli ultimi 15 anni. Giomi ricorda come «i processi di trasformazione sociale non siano mai lineari: si procede e retrocede, con torsioni reazionarie».
Occupandosi del tema da tempo, ha però osservato un miglioramento: fino all’inizio degli anni Dieci prevaleva il racconto di femminicidi statisticamente meno diffusi – compiuti da sconosciuti nello spazio pubblico – lasciando sotto traccia quelli più diffusi e perpetrati da persona conosciuta, come il partner. Si sovrarappresentava poi il femminicidio compiuto da un uomo di origine straniera, mentre l’uccisione di una donna di origine straniera o una sex worker veniva quasi ignorata. «Nel tempo la copertura si è riallineata al dato fattuale», spiega Giomi, «adeguando il linguaggio e introducendo termini come “femminicidio”».
Il 2013 è un punto di svolta: si è accolta la consapevolezza che «l’assassino ha le chiavi di casa». Si è però arrivati a un uso inflazionato del termine che, per la docente, sembra seguire logiche di indicizzazione algoritmica, con il paradosso che «si definisce correttamente senza però una chiave di lettura corretta».
L’etichetta “femminicidio” è usata con stereotipi, rappresentazioni fuorvianti dell’autore, della dinamica, delle cause. «Anche sulla stampa internazionale fino a qualche anno fa», racconta Giomi, «se un uomo uccideva una donna non si parlava del movente, ma della scena del crimine e dettagli morbosi. Al contrario, se una donna uccideva un uomo, si indagava il movente».
E questo, sottolinea l’esperta, dimostra la normalizzazione della violenza maschile, connotata a quel genere con una visione stereotipata, e la problematizzazione della violenza femminile. Oggi rimangono due tendenze, precisa: da un lato si normalizza e dall’altro si mostrifica. Si rappresenta ad esempio Turetta come «un ragazzo disperato, dominato da emozioni più grandi di lui che non ha saputo gestire, per mitigarne il potenziale minaccioso». Dall’altro lo si considera «portatore di un’aberrazione morale, un’eccezione mostruosa che distrae dalla costruzione culturale del maschile, dove si annidano invece le radici della violenza».
Il sistema dell’informazione
Nei media «prevale ancora la logica dell’audience, sollecitata maggiormente da una narrazione morbosa», osserva Luisa Rizzitelli, giornalista esperta di contrasto alla violenza di genere e capo ufficio stampa di Differenza Donna, «arriva più facilmente alla pancia delle persone. Raccontare il fenomeno è più difficile». Rizzitelli fa notare l’uso distorto delle immagini, fotografie che mostrano un abbraccio o momenti felici: «Non si può identificare una storia di violenza con un momento di serenità».
Non aiutano nemmeno i tempi concitati imposti dall’informazione e la carenza di formazione: «È un terreno di coltura perfetto per lo stereotipo», aggiunge Giomi. Si somma un altro elemento importante: ciò che non viene rappresentato. Rigo è tra le coordinatrici di una clinica legale sul contrasto alla violenza di genere e discriminazioni multiple a Roma Tre, in collaborazione con il cav Sara Di Pietrantonio gestito da Lucha y Siesta.
Dal monitoraggio dei processi, spiega, emergono storie dimenticate, come i tre femminicidi di Prati. «Non ne sentiamo parlare», segnala, «non vengono nemmeno indicati come femminicidi, ma vengono collegati alla malavita, quasi a normalizzare il fatto che tre donne, lavoratrici del sesso, vengano massacrate».
Strumenti
Nel 2017 i sindacati hanno varato il “Manifesto di Venezia” per una corretta informazione contro la violenza. «Un momento importantissimo», per Rizzitelli, ma quei principi devono essere attuati, anche «con un’alleanza più forte da parte dei colleghi uomini».
Oltre alla formazione, aggiunge, sarebbe importante che i giornalisti toccassero con mano il lavoro dei cav. Anche l’Agcom ha «strumenti chirurgici» per intervenire, tra cui un regolamento approvato nel 2023 a tutela dei diritti fondamentali «con riferimenti espliciti alle più comuni forme di rappresentazione tossica e un’attenzione a evitare la vittimizzazione secondaria», spiega Giomi.
Si prevedono sanzioni importanti, ma occorre attuarlo maggiormente. È urgente, conclude Rizzitelli: «Usare le parole sbagliate rende complici di un cambiamento che tarda ad arrivare e che uccide una donna ogni tre giorni».
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