Dalla fine di Matteo Messina Denaro al maxiprocesso alla 'Ndrangheta. Quello che sta per finire è stato un anno pieno di fatti, indagini, inchieste, processi, sulle cose di mafia: ecco un elenco delle più significative
Dall’arresto dell’ultimo boss della mafia stragista alla sentenza del primo maxi processo contro la ‘ndrangheta. Le inchieste su come le mafie si spartiscono affari e riciclano soldi a Roma e Milano. E poi il braccio di ferro tra Stato e clan a Caivano, i problemi di Confindustria in Sicilia tra la condanna in appello di Antonello Montante e il presidente etneo che per vent’anni ha pagato il pizzo, e la condanna definitiva di un politico di Fratelli d’Italia per associazione mafiosa.
Il 2023 è stato un anno pieno di fatti, indagini, inchieste, processi, sulle cose di mafia: ecco un elenco delle più significative, secondo Domani.
L’arresto di Messina Denaro
L’anno si apre con l’arresto più importante degli ultimi 17 anni. Dopo trent’anni, il 16 gennaio 2023 finisce la latitanza di Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss della mafia delle stragi che uccise i giudici Falcone e Borsellino nel 1992 e sfidò lo Stato con le bombe di via Palestro a Milano, via dei Georgofili a Milano, e di san Giovanni in Laterano e san Giorgio al Velabro a Roma.
Dopo decenni di caccia all’uomo, con centinaia di uomini di polizia e carabinieri impegnati nelle ricerche, U Siccu viene arrestato mentre entrava alla clinica La Maddalena di Palermo, dove avrebbe dovuto svolgere una seduta di chemioterapia sotto il nome di Andrea Bonafede.
Proprio il cancro che da qualche anno lo tormentava lo avrebbe portato ad abbassare la guardia negli ultimi tempi, tornando a vivere vicino la sua Castelvetrano, a San Vito a Campobello, dopo anni passati in covi non ancora trovati. L’arresto di Messina Denaro era stato preceduto dalle dichiarazioni rese in televisione di Salvatore Baiardo, spicciafaccende dei fratelli Graviano.
Delle vere e proprie profezie, sullo stato di salute del boss («Non ne ha per molto») e sulla possibilità che si consegnasse in cambio di una politica carceraria più morbida nei confronti dei mafiosi, come l’abolizione del carcere ostativo, alla fine di una sorta di trattativa.
La credibilità di Baiardo è ancora oggi argomento di discussione negli uffici giudiziari, ma le sue “profezie” – tra cui il giorno dell’arresto di Messina Denaro, a ridosso di una data importante: il trentesimo anniversario dell’arresto di Totò Riina – hanno stupito molti.
Come stupisce il mancato ritrovamento, al momento, dei tesori e dell’archivio di U Siccu, che potrebbero fare luce sui molti punti oscuri delle stragi di mafia degli anni Novanta. Dopo nove mesi di carcere, Messina Denaro è morto di cancro nel carcere de L’Aquila, senza dare alcuna informazione ai magistrati di Palermo.
La sentenza del primo maxi processo alla ‘ndrangheta
Oltre 2mila anni di carcere, 207 condannati, una sentenza letta dai giudici in quasi due ore dopo quasi un mese di camera di consiglio. A fine novembre si è concluso il processo di primo grado di “Rinascita Scott”, operazione della direzione distrettuale antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri, che nel 2019 era sfociata in centinaia di arresti e sequestri milionari.
Nell’aula bunker di Lamezia Terme, costruita appositamente per ospitare uno dei processi più grandi mai celebrati contro la criminalità organizzata in Italia, erano presenti i circa 350 imputati, con oltre 400 avvocati e quasi 900 persone chiamate a testimoniare.
Tra i condannati, ci sono tutti i più importanti boss del vibonese. Le indagini si sono concentrate su Luigi Mancuso, boss di Limbadi, e hanno svelato la sua rete di fiancheggiatori anche tra i colletti bianchi: tra questi spicca anche Giancarlo Pittelli, ex senatore e coordinatore regionale di Forza Italia condannato a undici anni di reclusione.
La “lavatrice” delle mafie romane
I narcos delle periferie della Capitale, ma anche uomini della camorra e della ‘ndrangheta. Un via vai da una serie di negozi all’Esquilino, quartiere romano a ridosso della stazione Termini, dove aveva sede un vero e proprio servizio di riciclaggio dei proventi di traffici criminali.
A inizio ottobre la Procura di Roma ha arrestato 33 persone in tutta Italia e sequestrato 10 milioni di euro, svelando un servizio di riciclaggio attraverso attività di copertura, di import-export di abbigliamento e accessori di moda. A capo del giro c’era Kui Wen Zheng, detto Luca.
Il denaro veniva trasportato in Cina attraverso un metodo chiamato "alla romana”: i corrieri venivano assoldati poco prima della partenza per il paese d'origine, così da rendere più difficile l'intercettazione, e il denaro occultato nelle valigie inviate in stiva. Non è la prima volta che le indagini dei magistrati, romani e non solo, si concentrano sul riciclaggio e sull’invio di denaro all’estero gestito da imprenditori cinesi: al contrario, negli anni ci sono state numerose inchieste che ne hanno svelato i meccanismi, in Italia e non solo.
Negli Stati Uniti, per esempio, gli investigatori della Cia in un’audizione al Congresso hanno definito la Cina “la più grande minaccia” per la sicurezza del paese. L’operazione di ottobre però ha svelato per la prima volta i legami con la Cina con le grandi organizzazioni criminali che operano in Italia.
Fratello di cosca
Dopo quattro anni è arrivata la condanna in Cassazione per Giuseppe Caruso. Per molti un nome anonimo, ma in Emilia-Romagna era molto conosciuto: presidente del consiglio comunale di Piacenza e funzionario dell’Agenzie delle dogane, era uno degli uomini di punta di Fratelli d’Italia in regione e molto vicino all’attuale capogruppo alla Camera Tommaso Foti. Dopo l’arresto è stato espulso.
Caruso è stato condannato a 12 anni e due mesi, più un risarcimento di un milione al comune di Piacenza, per associazione mafiosa: insieme al fratello Albino, anche lui condannato a sei anni e dieci mesi, il politico è risultato al servizio della cosca Grande Aracri, famiglia di ‘ndrangheta molto attiva in Emilia-Romagna con centro degli affari a Brescello.
Giuseppe Caruso era in contatto con il boss Salvatore Grande Aracri, di cui – scrivono i giudici – «era completamente a disposizione».
Le stese di Caivano
Un continuo scontro Stato-clan per il controllo del territorio. Fatto di operazioni di polizia per riportare la legalità e di “stese” per far capire chi comanda. Un botta e risposta senza interruzioni va avanti da quest’estate a Caivano, dopo lo stupro del Parco Verde: lì due bambine di 11 e 12 anni sono state violentate da un gruppo di adolescenti (sette minorenni e due maggiorenni).
Da allora, su quella che viene definita la piazza di spaccio più grande d’Europa, si è concentrata l’azione del governo, con la premier Meloni che ha dichiarato: «Mai più zone franche in questo paese».
Si sono succedute operazioni di polizia e la nomina di un commissario del governo, Fabio Ciciliano, che gestirà un budget di 30 milioni per la riqualificazione. A ogni azione del governo, i clan hanno risposto con delle “stese”. A fine novembre è entrato in vigore un decreto legge dell’esecutivo, per la riqualificazione del territorio, che per la prima volta ha introdotto il reato di “stesa”.
Confindustria e la Sicilia
Tramite dossier, ricatti e un’importantissima rete di relazioni condizionava la politica a suo piacimento. Considerato da tutti paladino dell’antimafia, numero uno di Confindustria in Sicilia, Antonello Montante è stato condannato in appello a 8 anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo al sistema informatico. In primo grado aveva avuto 14 anni.
Secondo i giudici, Montante «ha approfittato di opportunità che avrebbe potuto perseguire per coltivare ambizioni, interessi particolari e al contempo anche valori civici e obiettivi ideali», viene scritto nelle 400 pagine di motivazioni, «invece le ha piegate per pratiche di natura illecita».
Rimanendo sempre in Sicilia, a dicembre un’operazione della Dda di Catania ha scoperto che il presidente della Confindustria etnea, Angelo Di Martino, pagava il pizzo da vent’anni ai boss. Nel fascicolo, Di Martino risulta persona offesa, vittima di estorsione. Il presidente degli industriali catanesi, commendatore della Repubblica, non aveva mai denunciato. Dopo l’uscita della notizia, si è dimesso.
Cupola sì, cupola no
La mafia c’è, certamente. Quello su cui si sono divisi magistrati e giudici di Milano è l’esistenza o meno di una cupola, un centro di comando e spartizione degli affari tra cosche di cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta sul territorio meneghino.
Un consorzio criminale che avrebbe dello straordinario: mai prima d’ora si erano visti esponenti delle organizzazioni mafiose più potenti del nostro paese sedersi a tavolino per spartirsi interessi economici e criminali.
Esiste una sorta di “supercupola” secondo l’impostazione della direzione distrettuale antimafia di Milano, che aveva chiesto oltre 150 misure di custodia cautelare e un sequestro preventivo di oltre 225 milioni di euro.
«Le indagini hanno svelato l'esistenza di una organizzazione a struttura orizzontale all'interno della quale non esiste un vertice, ma più gruppi che si muovono parallelamente e che, in virtù di un accordo preventivo, assumono determinazione comuni funzionali allo sviluppo dell'associazione stessa», ha scritto nella richiesta al giudice per le indagini preliminari la pm Alessandra Cerreti.
«Non è stato possibile ricavare l'esistenza di un'associazione di tipo confederativo che raggruppa al suo interno le diverse componenti criminali – ha scritto nell’ordinanza il gip Tommaso Perna – Quel che è del tutto assente nella presente indagine, da una parte, è la prova dell'esistenza del vincolo associativo tra tutti i sodali rispetto al sodalizio consortile, dall'altra, dell'esternazione del metodo mafioso che deve caratterizzare l'unione tra persone e beni, tale da assurgere al rango di un fatto penalmente rilevante».
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