Ci voleva il faro acceso da Report sulla resistibile ascesa di Stefano Bandecchi, il focoso fondatore dell’università telematica Unicusano, sindaco di Terni ed ex patron della Ternana calcio, e sui discutibili investimenti commerciali da lui effettuati coi proventi esentasse di Unicusano perché finalmente ci si cominciasse a chiedere come funzionano e a chi servono le università telematiche, a vent’anni dalla loro istituzione.

L’idea per la verità era nata male, e mi fa piacere ricordare che sono stato tra i primissimi a segnalarlo (su La Stampa del 2003 e del 2004). Le università telematiche furono istituite nel 2003 da Letizia Moratti, ministra dell’Istruzione del governo Berlusconi II, in uno dei tanti impeti anti pubblico di quell’amministrazione. Il decreto fu emanato tenendo del tutto all’oscuro il mondo universitario e la Conferenza dei rettori (Crui).

Si promettevano meraviglie, anche se con un linguaggio raggelante: si vantava, per esempio, una cosa chiamata «adattività», descritta come «la possibilità di personalizzare la sequenzializzazione dei percorsi didattici sulla base delle performance e delle interazioni dell’utente coi contenuti online».

La genesi

Ovviamente sorsero subito polemiche, ma il ministero non fece una grinza: istituita una commissione di esperti per vagliare le proposte, cominciò ad accumulare dettagli indisponenti. Moratti, per esempio, il giorno prima di lasciare l’incarico per le dimissioni del suo governo, autorizzò ben tre di queste università. Una di esse (la Guglielmo Marconi) fu autorizzata perfino contro il parere della commissione ministeriale di esperti.

La Crui, incredula, manifestò «la sua più piena contrarietà», chiarendo che «non appare chiara l’esistenza di un corpo docente che, per numero e qualificazione, garantisca i criteri indispensabili per l’attivazione dei corsi di laurea previsti». Secondo il Miur, invece, le università telematiche prefiguravano «un sistema didattico altamente innovativo», che abbatte «il principio della contiguità fisica» tra studenti e professori, «che non ha costi di carattere pubblico e che consente all’Italia di allinearsi con l’Europa».

Sembrava che fosse nato un topolino. Nessuno immaginava che sarebbe diventato un concorrente pericoloso e sleale delle università pubbliche. E infatti, malgrado le proteste e i sospetti, le università telematiche hanno continuato a proliferare, raggiungendo oggi il ragguardevole numero di undici (su 97 totali, di cui 76 pubbliche e il resto private), con 149 corsi di laurea anche magistrale (soprattutto in discipline umanistiche), e richiamando ben 224.000 studenti (erano 44.000 dieci anni fa) sui poco meno di due milioni totali del sistema universitario.

Gli aspetti opachi

Potrebbe sembrare un successo, ma, se si guarda più da vicino, gli aspetti opachi non mancano. Non per nulla la ministra Maria C. Carrozza emanò nel 2013 un decreto che vietava nuove proposte, e nel 2021 il governo Draghi decise che il numero di docenti delle telematiche si adeguasse entro il 2024 a quello delle università convenzionali. C’è anche chi comincia coraggiosamente a prendere le distanze: nel settembre 2023 gli organi di governo dell’Università di Padova hanno unanimemente vietato ai propri docenti di insegnare nelle telematiche, anche a titolo gratuito.

Si cerca insomma di porre un limite ai molti inammissibili vantaggi competitivi di cui le università telematiche hanno goduto. Per cominciare, la promessa di Moratti che non ci sarebbero stati «costi di carattere pubblico» si è mostrata mendace. Infatti, lo Stato è un loro generoso finanziatore. I suoi contributi vanno dai più di seicentomila euro l’anno (Guglielmo Marconi) ai quindicimila (della piccola Iul), con una media superiore ai trecentomila euro e per un totale di circa due milioni all’anno. D’altro lato, le rette sono elevate: si va dai circa duemila euro annuali della Iul ai settemila di E-Campus, con una media attorno ai duemilacinquecento euro.

A dispetto di ciò, gli studenti accorrono in numero crescente: dal 2011 al 2021, anche per effetto della didattica a distanza imposta da un imprevedibile alleato come il Covid, le immatricolazioni sono cresciute di più del 400 per cento. In quei dieci anni gli immatricolati sono stati più di 180.000, mentre le università convenzionali ne hanno persi circa 20.000. Tra i motivi di questa attrattività ce n’è uno clamoroso e irresistibile: come hanno mostrato, con tanto di testimonianze, le trasmissioni di Report, laurearsi in queste università non è tanto difficile. Molti esami sono “a crocette”, i docenti sono generosi e le domande degli esami passati vengono vendute sfrontatamente online in pacchetti denominati “panieri”.

Il trionfo del precariato

Oltre che incassare rette importanti da un alto numero di studenti, le telematiche risparmiano sui professori: pochi docenti di ruolo, molti a tempo determinato, molti presi in prestito da università convenzionali con contratti da quattro soldi, e moltissimi tutor. In poche parole, si tratta di università fatte di precari, reclutati localmente e di preparazione non specifica né verificata.

Nel 2022, nella maggiore università telematica (novantamila studenti, di fatto il secondo ateneo del Paese dopo la Sapienza di Roma), i docenti erano 401, dei quali 335 (l’83,5 per cento) a contratto. I professori a pieno titolo, ordinari e associati, erano rispettivamente cinque e trentasette. Del resto, l’ultimo rapporto Anvur indica per le università telematiche un rapporto medio studenti-professore di 384,8 a 1: un docente ogni 385 studenti. Nelle università pubbliche il rapporto è di 28,5.

In altre parole, tra finanziamenti statali, rette elevate e furbi risparmi di spesa, le telematiche si sono rivelate un colossale business, così attraente da richiamare investitori finanziari. Il gruppo Multiversity, formato da tre di esse (Pegaso, Mercatorum e San Raffaele) e presieduto (singolare sorpresa) da Luciano Violante, è stato acquisito per più di un miliardo dal fondo di investimento britannico Cvc, specializzato in private equity.

Tra i tanti vantaggi sleali di cui godono, le telematiche contano anche su una valutazione fuori standard. Fino a questo momento, infatti, malgrado le proteste della Crui, l’Anvur (la struttura ministeriale che si occupa di valutazione) non applica a esse gli stessi criteri di accreditamento e valutazione che valgono per le università convenzionali. Dalle “visite” che l’Anvur ha svolto in queste università emerge che, su una scala di punteggi da A a E, solo Uninettuno ha B (pienamente soddisfacente), tre (Mercatorum, Fortunato e Pegaso) hanno C e tutte le altre D.

La politica

Il maggior asset però è costituito dalla contiguità con la politica, soprattutto con la destra. Non sarà un caso che il ministro Francesco Lollobrigida abbia preso nel 2014, quarantaduenne, una laurea in giurisprudenza presso Unicusano, la più chiacchierata. Non è neanche un caso che parlamentari di destra insegnino, a titolo diverso, in alcune di esse. Per dare una mano, in gennaio il deputato leghista Edoardo Ziello ha proposto senza successo un emendamento al decreto Milleproroghe per rinviare al 2025 l’adeguamento delle telematiche alle altre università, soprattutto riguardo all’aumento del numero dei docenti di ruolo.

Data questa contiguità, non stupisce che le università telematiche finanzino come un qualunque soggetto privato i partiti, solo se sono di destra. Francesco Polidori, patron dello storico Cepu e oggi delle telematiche E-Campus e Link (finito agli arresti domiciliari nel 2021 per bancarotta fraudolenta, autoriciclaggio ecc.), versa alla Lega contributi a cinque zeri. Anche da Bandecchi, il fondatore di Unicusano, somme importanti arrivano a Forza Italia, alla Lega e a Italia viva. Ma non basta. Il ministro della Pa Paolo Zangrillo ha esteso alle telematiche una vantaggiosa misura che il suo predecessore Renato Brunetta aveva riservato nel 2021 alle università convenzionali, per la quale per i dipendenti pubblici che intendono laurearsi lo Stato si assume il cinquanta per cento delle rette.

Questa serie di negligenze, commistioni, irregolarità e approssimazioni ha fatto sì che il topolino della Moratti diventasse un pachiderma aggressivo, che potrebbe divorare le università convenzionali, specialmente quelle pubbliche. Chi sarà in grado di domarlo? E poi, che ne è del benessere degli studenti e della ricerca? Quanto ai primi, una volta soppresso «il principio della contiguità fisica», l’unica cosa certa è che non possano montare agitazioni od occupazioni di sorta. Della ricerca, uno degli scopi primari delle università, non parla propriamente nessuno.

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