- La FIPE racconta come ci siano 15mila bar in meno rispetto a dicei anni fa, con almeno 10mila attività all’anno che abbassano definitivamente le serrande. Il tasso di sopravvivenza a cinque anni dall’apertura sfiora il 50 per cento
- A contribuire a questa crisi, la liberalizzazione delle licenze e la lotta al ribasso sui prezzi, necessaria per attrarre clienti ma non per mantenere in vita il comparto.
- Lo specialty coffee si propone come alternativa di business, più sostenibile. I prezzi elevati (ma equi) non lo rendono l’unica soluzione, ma traccia la strada
Il problema è che il caffè genera ancora povertà». Francesco Sanapo, barista e assaggiatore pluripremiato, è il fondatore di Ditta Artigianale, aperta a Firenze nel 2013 con l’obiettivo di portare in Italia caffè di altissima qualità e dimostrare che mantenere una filiera sostenibile non è utopia, ma una necessità.
«Oggi abbiamo un prezzo bassissimo della materia prima, che viene sottopagata. Quando si paga un euro per una tazzina di caffè, non si fa altro che alimentare questo circuito di povertà, non solo nei paesi produttori ma anche nel nostro», prosegue. Se è vero che un contadino dell’Etiopia, da dove è appena tornato, è vittima di un mercato che punta al perenne ribasso dei prezzi, allo stesso modo lo stipendio medio di un barista italiano non garantisce l’indipendenza. «A volte sono stati venduti dei container a meno del costo di produzione, pur di venderli. Questo è sciacallaggio. Fin quando queste produzioni commerciali vendono un chilo di caffè a tre euro, un prezzo indecente, nessuno si arricchisce lungo la filiera. Noi ci siamo allontanati».
In quel “noi”, Sanapo fa rientrare non solo il suo locale ma l’intero comparto dello specialty coffee, che fa della qualità e del rispetto dell’etica i suoi valori portanti. «Il sistema attuale non permette di pensare al domani, mentre quello dello specialty è l’unica strada». Forse non proprio l’unica, ma sicuramente una delle principali per uscire da una depressione profonda in cui vive il settore.
La crisi dei bar
Rispetto a dieci anni, nonostante l’Italia sia il settimo consumatore di caffè al mondo con 5,2 milioni di sacchi annui (dati offerti dal Consorzio Promozione Caffè, che riunisce le principali aziende che lo producono e lo commerciano), la Fipe racconta come ci siano 15mila bar in meno, con almeno 10mila attività all’anno che abbassano definitivamente le serrande. Per essere ancora più espliciti: il tasso di sopravvivenza dei bar a cinque anni dalla loro apertura sfiora il 50 per cento.
Si tratta di esercizi commerciali aperti mediamente per 14 ore al giorno, sette giorni su sette, che non riescono comunque a tirare avanti. Il caffè non è l’unico colpevole, certo, ma uno dei principali. Il bar viene tuttavia inevitabilmente associato a questa bevanda a cui nessuno vuole rinunciare, nonostante si venda tanto altro. «Un croissant a 1,20 euro è ridicolo se si pensa al lavoro che c’è dietro», spiega Francesco.
A contribuire a questa crisi, la liberalizzazione delle licenze commerciali che «all’inizio ha fatto sì che tutti aprissero un bar. Era diventato molto semplice, anche le grandi torrefazioni hanno cominciato a finanziarli. Successivamente, tutto questo è mancato. Adesso c’è più controllo, ma ha generato scompiglio». E un unico risultato: «In una strada dove prima c’era un bar, ora ce ne sono cinque, rendendo le aperture più difficili. Ma chi è che vince?». La sfida per raggiungere i clienti è molto più competitiva e si gioca su due livelli. Da un lato c’è una grande maggioranza che si affida a prezzi bassi, dall’altro chi punta sulla qualità dei prodotti, come chi lavora con lo specialty coffee. «Ma qui siamo in pochi», ammette l’imprenditore toscano.
Una strada in salita
Con un’inflazione che morde, proporre un caffè partendo da un prezzo minimo di due euro fino a cinque o sei potrebbe sembrare un’esagerazione, ma non è così. Il concetto di specialty nasce nell’America degli anni Settanta basandosi proprio sull’altissima qualità del chicco, che per essere tale deve superare una serie di ispezioni e raggiungere standard elevati. Vengono coltivati in particolari condizioni climatiche e ambientali, presentando un gusto diverso da quello che lascia il caffè tradizionale, nel pieno rispetto dei metodi di lavorazione del luogo di origine. A questo viene abbinata una cura dei locali nei minimi dettagli, non per moda, ma per migliorare l’esperienza del cliente. Si potrebbe riassumere il tutto sotto un diverso modo di concepire il consumo (anche) del caffè, meno incentrato sulla quantità ma sull’alta selezione, in modo che tutti, dal coltivatore al venditore, possano vivere dignitosamente.
Credere che lo specialty possa essere la soluzione sarebbe però un errore. Accantonando le singole preferenze, le possibilità economiche variano a seconda del consumatore e bisogna tenerle in considerazione. Dalle informazioni raccolte dalla società di analisi di mercato Niq (un tempo Nielsen), è emerso che nessun italiano rinuncia al caffè. La maggior parte tende a comprare prodotti di carattere porzionato, come le cialde, un segmento che risulta l’unico con un trend positivo nell’ultimo anno, sia in termini di volume che di valore, anche nel report di Consorzio Promozione Caffè. Il caffè in chicchi, invece, vede un aumento solo del prezzo dovuto per lo più al rincaro del periodo. Per quel che riguarda lo specialty è invece ancora troppo presto per avere dati oggettivi e imparziali, ma si può ovviare in altro modo.
Da un anno a questa parte, complice anche il momento storico, notiamo una scelta che ricade su un caffè low cost, mentre quello di alta qualità «subisce una flessione importante, sia in termini di vendite di valore (-12 per cento) che in termini di volumi (-18,6 per cento)», spiega l’analista di Niq, Pierluigi Serra. Un calo che viene riscontrato nella maggior parte dei canali di vendita, dal negozio al dettaglio al discount, fino all’e-commerce.
«Il consumatore continua a preferire cialde o capsule al caffè premium», prosegue. Questione di comodità e di risparmio, ma anche di cultura. Non è certo sugli scaffali di un supermercato che si educano i clienti a una spesa sostenibile, sebbene anche la grande distribuzione sia chiamata a lanciare messaggi e input differenti da quelli che promuovono solo prezzi bassi. Piuttosto, aggiunge l’analista, «i vantaggi di uno specialty coffee devono essere scoperti al di fuori, affinché il consumatore possa essere spinto a comprarlo per berlo a casa. Ma prima deve conoscerlo».
Consapevolezza
Sul caffè c’è infatti un urgente bisogno di consapevolezza. Lo beviamo ovunque (contrariamente a quanto pensiamo, noi italiani che consumiamo 95 milioni di tazzine al giorno, non così tanti rispetto al resto del mondo) ma probabilmente non sappiamo la provenienza né la fatica che c’è dietro, che invece lo specialty sottolinea per cambiare il paradigma e proporre un nuovo modello di business. Non per forza il migliore, ma un’alternativa più sostenibile.
Una delle minacce che stanno mettendo a repentaglio la produzione è il cambiamento climatico, che infligge ai coltivatori costi notevolissimi. «Per loro è una sfida, una questione di sopravvivenza», riprende Francesco Sanapo. Come lo sono i salari «ridicoli» percepiti dai baristi italiani, succubi di una guerra al ribasso. «Vorrei che il netto nelle buste paga dei miei dipendenti fosse più altro, altrimenti questo lavoro scomparirà. Ecco perché se il caffè non viene pagato il giusto, non c’è futuro».
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