«Il carcere è tossico, nuoce alla salute, soprattutto quella mentale. Occorre partire da qui per capire davvero qualcosa sui rapporti tra detenzione e salute mentale». Lo scrive Michele Miravalle nel ventesimo rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione, il titolo è “Nodo alla gola”, per informare «un’opinione pubblica troppo distratta» sulle condizioni delle carceri italiane e sui «troppi morti che siamo costretti a contare».

Fino al 25 ottobre 2024, in base ai dati diffusi dal garante, i suicidi negli istituti penitenziari sono stati 73. Il numero più alto a Pavia, in Lombardia, dove, in poco più di nove mesi, se ne sono registrati tre. «Un’emergenza nazionale» quella dei suicidi in carcere – avverte Antigone – che richiede soluzioni immediate da parte di governo e parlamento, che però con il ddl sicurezza vanno «verso una strada opposta».

Pavia non è l’unico istituto lombardo. Anche Milano San Vittore, Cremona, Monza e Varese e Vigevano. Dieci in tutto nella regione, la prima per numero di suicidi. A questi dati si aggiungono i tentativi di suicidio dal 1° gennaio al 1° ottobre 2024: 62 nel carcere di San Vittore, 22 nella casa circondariale di Como e 17 a Cremona. E gli atti di autolesionismo: oltre novecento a San Vittore, 197 a Cremona e 127 a Brescia, 126 a Monza, 119 a Busto Arsizio.

Le persone recluse sono costrette a vivere in condizioni degradanti, lo spazio vitale in cella è ridotto all’osso. A dirlo non solo la sentenza Torreggiani, con cui la Cedu ha condannato l’Italia nel 2013, ma anche le diverse condanne ricevute dai tribunali di sorveglianza, che in migliaia di casi hanno accolto le richieste di riduzione della pena per chi è stato costretto a vivere in condizioni inumane.

La Lombardia è anche la regione con il più alto tasso di sovraffollamento dopo la Puglia. Negli istituti lombardi si aggira intorno al 143,9 per cento, con il carcere di Brescia Canton Monbello che, all’inizio di quest’anno, faceva registrare un 209,3 per cento, così come Lodi (200 per cento) e Varese (179,2 per cento). Dove dovrebbero vivere cento persone quindi, in alcuni istituti, ce ne sono 200. E, su poco più di 6mila posti in tutta la regione, le persone detenute al 31 marzo erano 8.854.

La salute mentale

Nonostante i dati allarmanti, il presidente della regione, Attilio Fontana, «ha dichiarato che nelle carceri i detenuti con problemi psichici sono molto pochi», spiega la consigliera regionale Paola Bocci (Pd). Ma i numeri pubblicati da Antigone, così come quelli raccolti dalla consigliera con un accesso agli atti, dimostrano che esiste un diffuso disagio psichico in tutti gli istituti italiani, e in particolare in quelli lombardi.

Il 12 per cento delle persone detenute – registra Antigone – ha una diagnosi psichiatrica grave, quasi 6mila persone, su scala nazionale, in crescita rispetto al 2022 (+10 per cento). In Lombardia, nel 2022, il dato medio regionale era attorno al 12 per cento. Se alle diagnosi cosiddette maggiori si aggiungono anche altre diagnosi, come il disturbo di personalità o antisociale, le percentuali aumentano drasticamente. E così, in base all’accesso agli atti fatto da Bocci, alcuni istituti arrivano al 50 per cento. A questo si aggiunge la carenza di personale specializzato che, in alcuni casi, non è strutturato ed esercita la libera professione.

I penitenziari lombardi

Quello dell’istituto di Pavia è il dato più alto: su 684 detenuti (al 31 agosto 2024) il 64 per cento ha una diagnosi psichiatrica asse I e asse II, che comprende, tra gli altri, i disturbi clinici principali come la depressione, la schizofrenia e quelli di personalità. Si contano tre medici psichiatri, a tempo indeterminato, che lavorano nell’istituto in totale 288 ore al mese. Con un calcolo piano, assicurano al mese poco più di mezz’ora a persona. Ma occorre tener conto che non tutti necessitano di una presa in carico piena.

Gli psicologi sono invece sei, di cui tre a tempo indeterminato e tre liberi professionisti, con oltre 500 ore al mese. «Questo è un istituto con l’articolazione di salute mentale più grande della Lombardia e prevede un numero più alto di psichiatri in pianta organica», spiega Valeria Verdolini, presidente di Antigone Lombardia.

Anche Milano San Vittore presenta una percentuale molto alta: su 1.094 presenze, il 50 per cento è affetto da disturbo psichico o psichiatrico, circa 500 persone. «San Vittore è la porta di ingresso di tutti gli accessi in carcere, ci sono persone in attesa di giudizio, e vengono fatte le prime diagnosi», prosegue Verdolini. Qui gli psichiatri sono otto, di cui solo due sono strutturati, mentre cinque esercitano la libera professione. E in tutto vengono assicurate 500 ore. I sei psicologi, invece, sono tutti liberi professionisti.

A Bergamo i detenuti con disturbi psichici e psichiatrici sono il 40 per cento, circa 230 persone; a Brescia il 38 per cento, 188 reclusi; a Cremona il 45, 258 persone. In quest’ultimo caso c’è solo una figura medica specializzata e non è strutturata. Il medico psichiatra è infatti libero professionista ed è presente per 100 ore mensili. Non tutte le persone necessitano la stessa presa in carico, ma si parla di circa 23 minuti a testa al mese.

Su scala nazionale, invece, l’assistenza degli psichiatri è in media di 9,14 ore ogni cento detenuti, mentre quelle degli psicologi sono 19,8 ogni cento reclusi.

Un luogo patogeno

«Sono le regioni ad avere la competenza e dover intervenire in materia di salute», dice la consigliera Bocci. «In alcuni istituti non è assicurata nemmeno un’ora al mese per chi ha problemi di salute mentale», prosegue, «manca una presenza continuativa di personale specializzato. E serve inserirlo in modo strutturale, non con la libera professione».

Il disagio psichico non esiste solo negli istituti in cui ci sono apposite sezioni, le articolazioni di salute mentale, ma «in tutte le sezioni detentive», segnala Antigone nel rapporto. E lo strumento di governo della salute mentale è «il ricorso massiccio agli psicofarmaci, utilizzati con finalità non solo terapeutiche-sanitarie, ma di “sedazione collettiva” e “pacificazione” delle sezioni».

Il 20 per cento dei detenuti fa regolarmente uso di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi, con picchi in alcuni istituti (il 70 per cento a Trento). Mentre, segnala il report, il 40 per cento fa uso di sedativi o ipnotici.

«È evidente che il carcere sia uno spazio patogeno», sottolinea Verdolini, «e portare persone con diagnosi maggiori in un luogo basato sul controllo non aiuta». Per Verdolini da un lato esiste un aumento della sofferenza sociale nella regione, dall’altro c’è una tendenza a un uso etichettante della categoria psichiatrica, che spesso «peggiora e stigmatizza i percorsi dei detenuti, soprattutto di origine straniera».

E la presenza molto alta di quelli che vengono definiti dal sistema “rei-folli” da un lato tende a deresponsabilizzare la gestione della relazione tra agenti e detenuti, dall’altro dà spazio alla richiesta dei sindacati di polizia del ripristino degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg).

“Istituzioni di scarico”

Gli Opg, come “istituzioni di scarico” per persone detenute con disagio psichico di più difficile gestione, sono stati chiusi per legge nel 2014 e nella pratica nel 2017. Si è stabilito che dovessero essere trovati strumenti di cura all’interno del sistema penitenziario, a meno che la patologia non fosse incompatibile con l’ambiente carcerario.

«La soluzione non è quella che chiede la destra, cioè costruire nuove carceri, viste anche le condizioni di quelle già esistenti», dice Bocci, «bisognerebbe intervenire fuori dal carcere». I servizi territoriali però sono saturi e sempre più depotenziati. Spesso, racconta Verdolini, il primo contatto con un servizio psichiatrico avviene in carcere: «La sofferenza è visibile ma i servizi territoriali fanno fatica a intercettarla».

Ampliare la possibilità di formazione, inserimenti lavorativi, interventi di tipo sociale e ricreativo, aumentare l’uso delle misure alternative. Per Bocci sono alcuni degli elementi che possono contribuire a migliorare la situazione. Perché al carcere, un luogo di espiazione della pena, si deputa una funzione di cura, non la più indicata, conclude Verdolini. E si osservano sistematiche violazioni dei diritti individuali.

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