D’estate, la pena non va in vacanza, ma aumenta, si amplifica. Il tempo si dilata e lo spazio si restringe. La mancanza di attività e impegni durante la giornata obbliga a trascorrere più tempo in cella, e dunque quegli spazi già stretti si fanno più affollati di persone, che non sanno come occupare la giornata.

Claudio Bottan ha attraversato nove penitenziari ma nella sua mente, racconta a Domani, «sono diventati un unico carcere» e il denominatore comune è l’estate, «deserto di presenze e di attività». Dal 22 giugno Bottan è completamente libero e dedica il suo tempo a raccontare e denunciare il sistema carcere, dopo aver scontato sei anni e mezzo di reclusione e la misura alternativa dell’affidamento in prova. Era stato condannato complessivamente a 13 anni e 8 mesi.

Se all’inizio della detenzione non accettava la condizione in cui si trovava, ha poi cercato di dare un senso alla pena, aiutando gli altri reclusi, soprattutto stranieri, a scrivere istanze e dialogare con l’esterno. Un’attività disturbante per l’amministrazione penitenziaria, spiega Bottan, che lo ha portato a diversi periodi di isolamento e a numerosi trasferimenti.

Il vuoto

«Il tour delle prigioni alla fine mi ha riportato alla prima casella del giro dell’oca», spiega, «al carcere di Busto Arsizio», dove ha partecipato all’attività del giornale dell’istituto, che gli ha permesso di ottenere la misura alternativa. Per il resto, non riesce più a collocare geograficamente i penitenziari in cui è stato, perché le giornate si ripetono come fotocopie e nel periodo estivo si perdono anche le poche relazioni e i punti di riferimento che si hanno: non c’è più la scuola, non entrano più i volontari, gli avvocati vanno in ferie, così il personale.

In questi mesi si riduce fortemente la presenza di agenti di polizia penitenziaria, già sotto organico nei periodi ordinari: il rapporto detenuti agenti è infatti pari a 1,8 secondo il report dell’associazione Antigone del 2024, a fronte di una previsione di 1,5. Lo stesso avviene con gli educatori che, secondo i dati di Antigone, hanno in carico in media 65 detenuti a testa, ma in alcuni casi un singolo educatore prende in carico quasi 200 persone. O addirittura, nella casa circondariale di Trani, il rapporto è uno a 379.

Tutto si ferma e si svuota, quindi. «Dalla metà di luglio in poi diventa un inferno», dice Bottan, «senza interlocutori e con il caldo che non fa altro che aumentare la tensione, il disagio e gli atti di autolesionismo. Si amplifica il dolore». Se durante l’anno la scansione del tempo è data da diverse attività, nel periodo estivo «l’ozio diventa un macigno» e si rinuncia persino alla finestra di tempo concessa all’aria aperta. Continua Bottan: «I cortili sono vasche di cemento e diventano insopportabili. Non si respira più, non c’è un filo di ombra». E spesso le persone più anziane non escono più fino a settembre.

Sovraffollamento

Secondo i dati del ministero della Giustizia, aggiornati al 30 giugno 2024, i detenuti presenti nelle carceri italiane sono 61.480 a fronte di una capienza regolamentare di 51.234. Oltre diecimila persone in più.

Ma il numero di posti effettivamente disponibili, al netto di quelli inutilizzabili per necessità di interventi di ristrutturazione, è sensibilmente inferiore e porta il tasso di affollamento al 135 per cento circa, scrive Antigone nel commento al decreto Carceri. In alcuni istituti poi raggiunge livelli drammatici, come Brescia, dove si supera il 210 per cento o Regina Coeli a Roma, che ha raggiunto il 180 per cento. E il decreto voluto dal ministro della Giustizia Carlo Nordio per affrontare l’emergenza dei penitenziari, ora in conversione al Senato – segnala Antigone – prevede «interventi minimali», che non sono «minimamente risolutivi».

«Celle sovraffollate, con 40 gradi senza un filo d’aria, dove si deve convivere forzatamente con altri corpi, che hanno bisogni, esigenze, abitudini proprie», dice Bottan, che ricorda un’estate nel carcere di Rebibbia trascorsa in sei in una cella pensata per quattro.

Ma la parola sovraffollamento, sottolinea, non è sufficiente. «Il sovraffollamento è quello che vediamo sulle spiagge, al supermercato o in discoteca. Bisognerebbe trovare altre parole per descriverlo, anche per non anestetizzare il dialogo». È piuttosto «un accatastamento di corpi».

40 gradi in cella

E poi c’è il caldo. Nelle celle del carcere di Cagliari qualche giorno fa il termometro segnava 43 gradi, ha denunciato la garante regionale delle persone private della libertà, Irene Testa. «Siamo davanti a un’emergenza umanitaria che è a un punto di non ritorno», ha dichiarato. A Lecce ne facevano 38.

Il caldo in carcere diventa ancor più insopportabile perché i mezzi per affrontarlo sono più difficili da trovare. «A casa possiamo aprire la finestra, accendere il ventilatore o addirittura il condizionatore», racconta Bottan, «in carcere tutto questo è un miraggio. Si passano le giornate andando a rinfrescarsi sotto la doccia, bagnando i vestiti per poi rimetterseli addosso. In alcuni istituti in cui sono stato, si allagava il pavimento della cella per avere refrigerio o si faceva scorrere ininterrottamente l’acqua del lavandino per raffreddare le bottiglie. Si fa un gran uso di acqua, ma sono soluzioni di emergenza». E alcune strutture hanno problemi di approvvigionamento di acqua.

Nelle celle poi non ci sono frigoriferi, in alcuni istituti si trovano quelli condivisi per sezione, ma spesso non sono sufficienti. «L’aria condizionata non esiste nelle celle, né negli uffici», spiega Alessio Scandurra, Coordinatore dell’osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione di Antigone.

Anche acquistare un ventilatore, per chi può permetterselo, non è semplice. «Non è un bene autorizzato – aggiunge – quindi deve essere inserito nel catalogo della ditta che gestisce il sopravvitto, l’insieme di prodotti che le persone detenute possono comprare». In carcere, però, non può entrare un ventilatore qualunque, prosegue Scandurra, «deve avere alcune caratteristiche decise dal ministero. E tutto ciò, la scorsa estate, ha comportato problemi perché non tutti gli istituti trovavano i modelli consentiti».

Spesso l’unica soluzione resta quella di ingegnarsi con quello che si ha. «Aprire e chiudere la finestra in uno spazio piccolo non è sempre agevole, perché spesso significa dover spostare il letto. In alcuni istituti, d’accordo con la direzione, le finestre vengono smontate». Ma le finestre in carcere non sono tutte uguali. «In alcuni casi hanno solo le sbarre, in altri ci sono delle reti metalliche pensate per impedire il passaggio di oggetti, che di fatto ostacolano anche il passaggio dell’aria, e dunque in quel caso aprire la finestra non basta», precisa il coordinatore.

In alcune situazioni invece i detenuti fanno richiesta di apertura della porta blindata durante la notte, per permettere all’aria di circolare attraverso la seconda porta, una sorta di cancello con le sbarre. Ma molti istituti, in particolare quelli più vecchi, hanno una porta unica che non può essere lasciata aperta: «Questo accade anche in alcuni istituti minorili perché i minori non avrebbero dovuto trascorrere il tempo in cella. Poi, di fatto, si ritrovano con una porta d’acciaio chiusa e solo una piccola finestra», aggiunge.

Il caldo toglie il sonno. Si aggiungono il tempo vuoto, gli spazi ristretti, la convivenza forzata. È un periodo in cui aumentano i disturbi legati all’ansia, accentuati dalla temperatura e dal cambiamento della routine. «La solitudine si fa sentire», dice il coordinatore.

Nel 2024 nelle carceri italiane ci sono stati 58 suicidi, un numero enorme che in momenti di maggiore fragilità come quello estivo rischia di diventare ancora più drammatico. Non solo è un periodo con un rischio più alto di atti di autolesionismo, evidenzia Scandurra, ma è anche più difficile che il personale o gli altri detenuti si accorgano in tempo di alcuni segnali allarmanti. «Se una sezione è viva è più facile accorgersi dei campanelli d’allarme», conclude, «mentre nella desolazione è più difficile accorgersi, ad esempio, che una persona non si alza dal letto, perché è quello che fanno tutti».

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