La sovranità alimentare del vino più famoso d'Italia è un mito. Dalle proprietà al mercato di sbocco, dalla meccanizzazione alla manodopera impiegata nel settore, all’identità tipica contribuiscono da tutto il mondo
La terra è l’unico bene non esportabile». A dirlo è Carlotta Gori, direttrice del Consorzio del Vino Chianti Classico, il più antico in Italia. Il suo storico simbolo è il gallo nero, che oggi riunisce 480 produttori.
La tutela del territorio sta acquisendo sempre maggiore importanza nella produzione e nella promozione di un prodotto vessillo dell’italianità nel mondo, ma è proprio l’espansione dell’esportazione, sia a livello quantitativo che di diversificazione dei mercati, che permette di attutire i colpi dati dagli sconvolgimenti economici e geopolitici degli ultimi anni.
Tsunami Covid
«La caratteristica di essere distribuiti in così tanti paesi ci ha consentito, per esempio, di resistere allo tsunami del Covid, perché spesso quando si chiudevano dei confini, se ne aprivano altri», racconta Gori. I viticoltori non sono stati immuni all’aumento dei costi di produzione, ma sono riusciti a farvi fronte grazie a una costanza nei consumi e alla stabilità dei mercati di esportazione prevalenti: una bottiglia su tre viene venduta in Canada o negli Stati Uniti.
Conciliare l’attività dei vignaioli con quella delle grandi aziende è un’altra delle sfide del Consorzio. «La stragrande maggioranza dei produttori di Chianti Classico percorre l'intera filiera produttiva, dalla coltivazione del vigneto alla commercializzazione della propria bottiglia. Per le piccole aziende arrivare sui mercati internazionali è più faticoso, e in passato l'opera delle grandi case vinicole è stata strategica per aprire i mercati del mondo», continua Gori.
Se da una parte, però, il commercio si regge sul concetto stesso di globalizzazione, il consumatore di oggi ha un’attenzione in più per il piccolo produttore. «È qui che si trova l'equilibrio tra le parti, c’è un interesse reciproco ad avere la forza dei grandi brand e la diversificazione della denominazione, apprezzata dal consumatore più maturo: le due realtà sono interdipendenti», conclude la direttrice.
Il Chianti, infatti, prima di essere un vino, è un territorio. Negli anni Sessanta, con la fine della mezzadria, i modi della produzione sono stati rivoluzionati e nel 1965 è stata introdotta la Denominazione di Origine Controllata, che ha imposto nuovi limiti. Prima, la produzione ammetteva anche l’uso di uve che venivano dal sud Italia. Oggi invece il concetto di “territorialità” è uno dei valori fondanti del Chianti Classico.
Se da un lato raggiunge, una volta imbottigliato, anche i confini più remoti degli altri continenti, dall’altro rimane radicato alla terra da cui proviene, evolvendosi nella sua tutela.
L’ultimo passo in questo senso è stata l’introduzione delle Uga, Unità geografiche aggiuntive, che prevedono l’indicazione del comune di produzione su ogni etichetta. «Questo è un tentativo di identificazione maggiore con il territorio, che altrimenti, se considerato in modo più generale, sarebbe molto vasto», spiega Attilio Scienza, professore di viticoltura ed esperto internazionale del settore.
Per quanto cruciale sia la territorialità, parlare di “crisi della globalizzazione” sarebbe, però, anacronistico, trattandosi di un comparto che si regge sulla massima espansione dei propri mercati. Basti pensare che l’80 per cento del Chianti Classico prodotto viene esportato, soprattutto, come detto, al di là dell’Atlantico. Quello stesso oceano Atlantico che tra il 1600 e 1700 fu teatro di una delle prime fasi della globalizzazione del commercio mondiale.
L’altra crisi
L’Europa centrale usciva dalla guerra dei Trent’anni, terminava la piccola glaciazione e l’Olanda, da poco indipendente, insieme all’Inghilterra si organizzava per creare rotte di commercio verso l’America. Venezia, al contrario, si chiudeva nel Mediterraneo, almeno per un periodo, entrando in crisi per l’enorme concorrenza delle altre due potenze europee. «Il paragone con oggi è d’obbligo», spiega Scienza, «ora come allora è importante procedere verso una nuova visione».
Una visione che tenga conto di una serie di trasformazioni simili a quelle che il mercato del vino si trovò ad affrontare centinaia di anni fa: il cambiamento climatico, economico ed antropologico. Se infatti allora il nuovo gusto era dettato dalla borghesia, oggi è la generazione Z che richiede una modifica nel rapporto tra vino e consumatore e un nuovo modo di comunicare il prodotto. «La fase di trasformazione in cui siamo oggi è da considerare in modo positivo, come l’occasione per rivedere le scelte del passato», continua Scienza.
Sostenibilità e cambiamento climatico sono stati i due fattori che hanno influito sulle modifiche più recenti nelle modalità di produzione.
«La meccanizzazione è entrata con grande successo nel mondo della produzione, anche per la mancanza di manodopera - continua il professore - in più, l’avvento della viticoltura di precisione ha affinato le tecniche di raccolta meccanica, utilizzando dati satellitari per conoscere la variabilità del vigneto e trattare parti diverse in modi diversi».
Gli stessi macchinari hanno filiere diffuse spesso in tutto il mondo. «Non c’è più una visione nazionale della meccanica», conferma Scienza.
Dalla Repubblica Ceca alla Francia, dall’Asia all’Italia, quasi sempre il paese di assemblaggio è diverso da quello di produzione dei singoli pezzi di un macchinario.
Il contributo dell’uomo
A rimanere esclusa dalla meccanizzazione sono le fasi che richiedono la delicatezza della mano dell’uomo. «Oggi la manodopera, spesso molto dinamica e composta da persone di nazionalità diverse da quella italiana, ha bisogno di formazione», spiega Scienza.
In effetti, il progetto di Marco Simonit, fondatore dell’azienda di consulenza e formazione Simonit&Sirch, agisce in questo senso. Non solo masterclass, ma anche un'accademia che trasmette un metodo di potatura consolidato in anni di ricerca. «Quarant’anni fa ci si focalizzava sulle tecniche di vinificazione, su ciò che avveniva in cantina e nessuno pensava di investire sui potatori», racconta Simonit, «nel 2009 abbiamo fondato la prima scuola italiana di potatura della vite, che oggi conta circa 500 iscritti all’anno solo in Italia».
Un nuovo attore che partecipa al comparto lavorativo delle aziende vitivinicole sono le cooperative. Queste forniscono la cosiddetta “manodopera esterna”, lavoratori stagionali che vengono assunti dalle grandi case di produzione nei momenti di maggiore bisogno: la potatura invernale, la scelta dei germogli in primavera, in estate per la gestione della parete fogliare e la vendemmia autunnale.
«È un fenomeno che riguarda tutto il mondo: in Australia arrivano dal Laos per lavorare nelle vigne, in Sudafrica non ci sono bianchi, in America sono tutti messicani, in Germania sono ungheresi e in Italia persone di nazionalità albanese, rumena o cingalese», precisa Simonit.
Insomma, la sovranità di prodotti così italiani e al contempo così universali, come il Chianti Classico, è un falso mito. E l’unico modo per continuare a migliorare il comparto nel rispetto della sostenibilità delle risorse umane e naturali di cui ha bisogno è tenere conto della sua eccezionale diffusione.
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