Nei tribunali sono ancora troppo frequenti domande umilianti per le donne. Ma il linguaggio istituzionale contribuisce alla costruzione culturale di una società. Gli avvocati possono «difendere gli imputati senza usare stereotipi»
Il linguaggio usato nei processi di violenza sessuale esce fuori dall’aula e si afferma come linguaggio istituzionale, contribuendo alla costruzione culturale della una società. Lo dimostra il processo che sta per arrivare a conclusione in Francia, a carico di Dominique Pelicot e di altri 50 imputati. L’uomo è stato accusato di aver drogato e violentato per dieci anni la moglie, Gisèle Pelicot, organizzando anche incontri con sconosciuti.
Chiunque ha il diritto di difendersi. E in materia di violenza di genere «l’imputato deve potersi difendere contestando la credibilità della vittima presunta ed evidenziando eventuali incoerenze nella sua deposizione», scriveva la Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2021, nella sentenza di condanna J.L. contro Italia.
Ma, proseguiva la Corte, «il contro interrogatorio non deve essere utilizzato come un mezzo per intimidire o umiliare». I giudici hanno infatti ritenuto «ingiustificati i riferimenti fatti dalla corte d’appello alla biancheria intima rossa “mostrata” dalla ricorrente», alle «relazioni sentimentali» e ai «rapporti sessuali occasionali di quest’ultima prima dei fatti».
Ma i processi che si celebrano in Italia, e non solo, per i reati di violenza sessuale sono ancora intrisi di stereotipi: da Processo per stupro del 1979, al caso di Ciro Grillo del dicembre 2023, quando la difesa di uno degli imputati per violenza sessuale di gruppo aveva chiesto alla persona offesa perché non si fosse divincolata, perché non avesse urlato, perché non avesse morso in un rapporto sessuale orale.
O, ancora, nel caso delle due ragazze statunitensi che nel 2017 avevano denunciato due carabinieri di violenza sessuale a Firenze, le domande dell’avvocato sono state poi dichiarate dal giudice inammissibili: «Indossava solo i pantaloni quella sera? Aveva la biancheria intima?», aveva chiesto.
«Le argomentazioni suscitate dalle domande degli avvocati possono finire in una sentenza resa in nome del popolo italiano», spiega Iacopo Benevieri, avvocato penalista, esperto di linguaggio nel processo penale. Benevieri ha difeso, in procedimenti per violenza sessuale sia imputati sia parti offese, ma – sottolinea – «si può difendere un imputato senza riprodurre stereotipi» e «contestando la credibilità di una persona tramite elementi oggettivi, come documentazioni».
Il linguaggio
«Nei processi non vengono più utilizzate espressioni offensive nella formulazione delle domande, ma permane un linguaggio più sottile», continua Benevieri. La domanda «perché non ha morso?» non ha di per sé un contenuto lessicale offensivo, fa notare l’avvocato, ma chi la formula introduce uno stereotipo, suggerendo che «in quel momento la persona fosse libera di scegliere», ignorando così «decenni di studi di psicologia sulle vittime di fronte a violenze sessuali orali», e il fenomeno del freezing (che porta a reagire alla paura con un’immobilizzazione, non solo fisica, ndr).
Per l’avvocato, in questa materia, si è creato un cortocircuito: da un lato, c’è la presunzione dell’avvocatura di conoscere il linguaggio, dall’altro la presunzione di conoscere le dinamiche della violenza sessuale.
Ma, si chiede, perché in un processo per bancarotta, i legali studiano la normativa, mentre nei casi di violenza sessuale nessuno studia le dinamiche connesse al fatto, da un punto di vista psicologico, sociale, relazionale?
Occorre dunque, sottolinea l’esperto, «formulare un nuovo vocabolario per noi avvocati quando difendiamo gli imputati» di violenza sessuale, che impedisca di caricare di significato condotte precedenti della vittima e imponga di fare domande che rimangono nel perimetro del capo di imputazione. Che non trasformino, quindi, il processo in un attacco alla persona offesa, producendo vittimizzazione secondaria.
Evidenzia l’avvocato: «La domanda è sempre un atto di potere». Alle domande che introducono gli stereotipi le varie parti del processo possono opporsi, e il giudice può dichiararle inammissibili. Ma, ancora oggi, la mancanza di formazione non permette di sollevare la questione in giudizio. Non si conoscono aspetti, giuridici, sociali, linguistici, psicologici.
La stessa convenzione di Istanbul chiede di «fornire e rafforzare» la formazione di tutti gli operatori, ma le maggiori criticità in Italia, nella formazione in materia, coinvolgono proprio l’attività forense e i consulenti tecnici, aveva rilevato nel 2021 la commissione d’inchiesta del Senato sul femminicidio.
La norma è atto politico
Ad alimentare gli stereotipi giudiziari, la norma sulla violenza sessuale così come prevista dal codice penale. L’articolo 609-bis non pone al centro il consenso, come richiesto dalla convenzione di Istanbul e da organismi internazionali, ma la costrizione che si ritiene quasi sempre fisica.
«Nei processi si cercano ancora i segni sul corpo per provare la violenza, ma potrebbero non esserci, come dimostrato da molte ricerche e previsto dagli stessi orientamenti della Cassazione», spiega Benevieri, ricordando che la costruzione di una norma «è un atto politico» e «il consenso della donna fa ancora paura al legislatore».
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