Saluzzo e Alba, profondo Piemonte, sono terre dove il lavoro è un culto e il perimetro della parola “sfruttamento” è vago, perché qui vivono, e comandano, uomini e donne che grazie all’autosfruttamento – turni in fabbrica più lavoro della terra nel tempo “libero” – non solo sono scappati dalla miseria ma hanno costruito imperi economici.

Saluzzo è uscita da un brutta vicenda legata al maltrattamento della manodopera agricola, prettamente africana, dopo alcuni anni bui culminati tra il 2016 e il 2019. Alba sta entrando ora dentro quel gorgo fatto di demolizione sistematica della “reputazione”. La vicenda è nota e reca tutti gli elementi puntuali delle storie più crude: lavoratori maltrattati da caporali perché chiedevano il salario spettante, tuguri affittati a caro prezzo. Mancano denunce e proteste di massa.

Il modello 

Per uscire dall’angolo di una storia che mina le Langhe viene evocato, vagamente a sproposito, da qualche giorno il “modello Saluzzo”: inventato da un uomo di (centro) sinistra, Mauro Calderoni, già sindaco della città per due mandati e oggi eletto consigliere regionale – in un territorio compattamente di destra ma non estrema – nacque quando l’Espresso coniò un devastante slogan: «Saluzzo, la Rosarno del nord».

Nel 2016 oltre mille lavoratori si accamparono prima in un parco cittadino, poi trovarono posto in una caserma attrezzata dove vivevano in un mondo a parte, migliore della strada ma sempre lontano da condizioni dignitose.
Calderoni si inventò nel 2020 un rete di comuni solidali, pochi, un buon rapporto con la Prefettura, il sindacato, le imprese, la fondazione Compagnia di San Paolo, Caritas, una cooperativa operativa sul campo (Armonia) e convinse questi soggetti che si poteva creare una rete di accoglienza diffusa sul territorio. La regione Piemonte guidata da Alberto Cirio si unì, ma sul territorio saluzzese in molti ricordano bene che all’inizio gli esponenti locali della destra non manifestarono particolare entusiasmo. Dopo una fase sperimentale seguirono fondi ministeriali che rafforzarono il progetto.

Il risultato, dopo quattro anni, è che a metà luglio gli aspiranti lavoratori accampati nel centrale di Saluzzo erano circa cinquanta, cento.

Le Langhe oggi cercano un modello per uscire da una situazione pericolosa. Quando sono diventate pubbliche le immagini più crude la risposta è stata classica e dettata dal panico: «Sono solo poche mele marce». Una frase sentenza perché è una retorica che viene utilizzata laddove vi sono le situazioni più compromesse e si tenta una impervia via relativizzante.

Consapevoli che le Langhe, differentemente da Saluzzo, sono una “eccellenza” che vende simboli materiali e immateriali amati a livello globale, è subentrato una torsione il cui messaggio di fondo è “la situazione esiste, ci stiamo muovendo per affrontare e fermare il fenomeno”.

Forse perché è stato compreso che un disastroso storytelling potrebbe abbattersi attraverso un semplice post su X di uno chef di New York, o una sommelier di Parigi, oppure un editoriale sul New York Times: poche le parole che potrebbero stroncare il consumo delle élite globali.

Le misure adottate

Il mondo del vino di Langa, rappresentato dal “Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani”, da tempo è consapevole di quanto accade e, per la verità, non è rimasto imbelle ad osservare gli eventi. Nel gennaio del 2023 organizzò un convegno a Torino dove si denunciarono senza giri di parole la condizioni di lavoro presenti, mettendo bene in chiaro che anche un solo caso aveva in sé un potenziale letale per tutti. Quell’abbrivio lo si deve all’ex presidente del Consorzio, Matteo Ascheri.

Seguì un accordo con una impresa sociale di Torino, Weco, che al suo interno aveva un ramo di azienda, Accademia della Vigna, che grazie a un lavoro sul campo raccoglie l’offerta di lavoro in ambito agricolo, la veicola in un percorso di selezione formazione e accompagnamento, fornendo alle aziende operai di vigna formati che vengono regolarmente assunti: sono quasi tutti africani con alle spalle esperienze lavorative assai “complesse” in giro per l’Italia

Numeri piccoli indubbiamente, al momento: 25 persone assunte in due anni nella fase sperimentale che potrebbe fungere da modello.

Non solo: ancor prima che si evocasse il “modello Saluzzo” – probabilmente a livello metodologico perché ad esempio nella cittadina del marchesato il fenomeno delle “coop/aziende bandito” è semi inesistente – la Prefettura di Cuneo ha costruito siglato un Protocollo, che nasce da un partenariato pubblico-privato d’intesa con Comuni, Regione Piemonte, Provincia di Cuneo, associazioni datoriali, sindacati, Consorzio di tutela, per la «prevenzione di sfruttamento lavorativo nel territorio di Alba, Langhe e Roero, e per la promozione del lavoro regolare, abitare dignitoso e trasporto per lavoratori agricoli stagionali».

Il protocollo prevede alcuni punti prodromici: emersione dello sfruttamento lavorativo, assistenza delle vittime con soluzioni formative, logistiche e lavorative, sensibilizzazione delle imprese e dei lavoratori sul fenomeno del possibile sfruttamento e sulle sue ricadute, sperimentazione di soluzioni alternative nel reclutamento della manodopera per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Di protocolli simili ne esistono in tutta Italia, ma questo ha una caratteristica particolare: sul tavolo è presente l’idea di una creazione di una azienda del territorio, la forma giuridica verrà proposta a seguito di uno studio di fattibilità, in grado di attrarre i lavoratori affinché escano dall’efficientissimo mercato dell’illegalità. Un mercato in grado fornire lavoro (sfruttato), casa (tuguri) a quel vasto mondo che galleggia tra la vita e la morte, condizione relativa alla scadenza del permesso di soggiorno.

Mai dimenticare che l’enorme struttura del caporalato in Italia poggia su tre solide fondamenta: la legge Bossi Fini, decreti flussi inadeguati, la potenziale espulsione dal paese in assenza di lavoro regolare.

Il Consorzio di tutela, attraverso il suo nuovo presidente Sergio Germano, promette la costituzione di parte civile verso le imprese che risulteranno colpevoli, nonché l’espulsione dal Consorzio stesso. Sono passi draconiani, ovviamente c’è chi li minimizza, figli del pericolo che incombe sull’intera Langa.

Il rispetto per gli ultimi arrivati

Giorni fa il regista Davide Ferrario, ha vergato sul Corriere della Sera, pagine torinesi, un piccolo editoriale in cui, in sintesi, domandava: se a potare le vigne più care mondo – alcune valgono milioni all’ettaro e sono oggetto di concupiscenza globale – ci vanno gli africani che sono appena sbarcati, allora dove è la maestria, la cura, le mitiche tecniche Guyot e sperone coronato? Si tratta di fuffa pagata a caro prezzo?

La domanda è pertinente, ma la risposta è abbastanza semplice e spiega che spazio per la legalità c’è in abbondanza: chi pota a Guyot o sperone coronato, o chi guida con maestria le macchine su e giù per colline che hanno inclinazioni che raggiungono il 30 per cento, è regolare e conteso dalle aziende.

Sono quasi tutti africani per altro: i vini più pregiati del mondo nascondo da mani nere che sono assunte e apprezzate dai imprenditori piemontesi doc. Lo sfruttamento si annida nei lavori umili, ma indispensabili, che vanno da giugno a alla vendemmia.

Sullo sfondo poi incombe la resa dei conti definitiva, ovvero che anche gli africani si stufino di andare a lavorare in vigna, a piantare pali o legare i tralci. Italiani, est europei e balcanici hanno da tempo abbandonato.

Durante un bel convegno che si è svolto ad Alba lo ha detto a chiare lettere Alberto Grasso, trentacinque vendemmie sulle spalle, responsabile agronomico delle Cantine Fontanafredda, che in un duro ma illuminante intervento ha scandito queste parole: «Gli africani sono gli ultimi: se non li tratteremo in maniera civile, se non impareremo a rispettare i loro diritti, dopo di loro ci saranno solo due vie. La prima sono i robot, la seconda saranno i grappoli di uva che rimarranno sulla pianta».

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