I suoi tre titoli precedenti si sono sempre portati dietro un’obiezione, mentre questo nuovo successo è arrivato nell’anno in cui non aveva la macchina migliore, fra dissidi interni, problemi con suo padre, la condanna della federazione ai servizi sociali per le parolacce alla radio in corsa. Così abbiamo rivisto il Max-calzone brutto sporco e cattivo delle origini, come al solito indomabile
Lo abbiamo accolto come un Mozart ma a lui piaceva di più la parte di Salieri. Lo abbiamo chiamato il Pilota Nuovo e lui si è messo a correre come i vecchi, come le leggende, i Nuvolari, i Senna, i campioni finiti coi loro sorpassi e le loro curve nelle canzoni di Lucio Dalla. Lo abbiamo immaginato come un robot programmato da suo padre e lui si è tolto la cibernetica di dosso, manifestando una rabbia da ragazzo bollente e prendendo a fiancate gli avversari, salvo ridiventare l’incarnazione della pazienza quando tanto ardore era diventato un altro cliché. Con Max Verstappen esiste una sola verità. È un imprendibile. In pista, fuori, in ogni luogo.
È olandese ma è nato in Belgio. Ha vissuto di più con papà Jos eppure assomiglia nel carattere a mamma Sophie, pilota di kart che si accorse d’essere incinta alla fine di una corsa. La sua è una storia fiorita fin dal principio in mezzo a una foresta di segni. Ha debuttato che aveva 17 anni e 166 giorni, non era ancora maggiorenne, non aveva la patente. Il giorno in cui andò a fare l’esame pratico per prenderla, stavano per bocciarlo. Per due volte non aveva dato la precedenza. Gli istruttori lo guardarono storto, lui non si perse d’animo, spiegò che le altre automobili erano ancora lontane, non aveva proprio nessun senso fermarsi all’incrocio. Li convinse, gli credettero, gli diedero la patente e non si è fermato più.
Lui e Las Vegas
È andato a prendersi il quarto titolo mondiale di Formula Uno a Las Vegas, dove fino a due anni fa la sola macchina familiare era la Elva KKVI Maserati guidata da Elvis Presley nel film del ‘64. Gli USA hanno da sempre altre passioni a motore, si divertono con le Indycar e la NASCAR, la Formula Uno è arrivata prima a Miami e poi nel Nevada solo per un innesto dei nuovi padroni della ferriera, americani pure loro, la Liberty Media Corporation di John Carl Malone, un signore che si augurava di vedere Bloomberg alla Casa Bianca e che ha finanziato Donald Trump con 250mila dollari. Quando gli americani hanno preso il comando del Circus, Lewis Hamilton ha smesso di inginocchiarsi sulla griglia di partenza per Black Lives Matter e il campionato è diventato all’improvviso un’altra cosa, un prodotto da vendere a Netflix perché ci costruisse una serie glamour, sbrilluccicosa, una magnifica leva per invadere i salotti e i divani di chi non ne sapeva niente e invece adesso guarda la F1 in tivù.
Deve significare proprio qualcosa se Verstappen ha raggiunto il numero di titoli di Prost e Vettel proprio a Las Vegas, ignorata per mezzo secolo dalle franchigie dello sport professionistico americano per via di quella fama da città peccaminosa, le scommesse, i casinò, il business dei matrimoni veloci e facili. Las Vegas era la peste, era la perdizione, giusto la boxe poteva venire a farsi un giro fra le slot-machine e i tavoli da poker, farsi baraccone in mezzo agli altri. Quando sono arrivate le macchine della F1 per la prima volta, gli hotel si sono messi a vendere pacchetti da 9mila dollari a persona tutto incluso, autista, sala fitness privata, biliardo, champagne. John Legend e Kylie Minogue aprirono il programma con un concerto, Max Verstappen disse che si sentiva un clown: se volevano trasformare il suo mondo in tutto questo, meglio smettere, meglio non aver niente a che fare con la F1 che «gettava a mare i suoi principi», una definizione del magazine The Athletic.
L’innovatore
Il grande paradosso è che il suo sport dentro questo nuovo mondo ce l’ha portato lui, arrivando a spettinare la Formula Uno quando i giornali la chiamavano Formula Noia, e trasformandola in uno show, in un wrestling su quattro ruote, prendendo a sportellate gli anziani, proponendosi come un pilota che poteva essere al tempo stesso un acrobata e un attore, uno sfrontato, uno squalo, una brocca d’acqua fresca, uno che guida sull’asfalto bagnato con una faccia da schiaffi e con l’incoscienza degli immortali. Il poster perfetto per un pubblico nuovo, meglio se più giovane.
Ecco perché vederlo campione a Las Vegas è un cerchio che si salda. È diventato una leggenda, di questo si tratta. Il quarto Mondiale toglie ogni asterisco dalla carriera del Max-calzone. Il primo titolo del 2021 si portava addosso l’ombra di una decisione spericolata presa dal direttore di gara Michael Masi all’ultimo GP di Abu Dhabi. La Mercedes e Hamilton si sentirono danneggiati, i loro reclami furono respinti, ma qualcosa di poco chiaro ci fu se Masi venne poi rimosso. Il secondo titolo del 2022 è stato segnato dagli errori della Ferrari, quello del 2023 dal sospetto che fosse più merito dell’astronave RB19 che della sua guida. Verstappen era Verstroppo.
La diversità del quarto titolo
Ma stavolta no: stavolta il Mondiale di Max è cominciato con una crisi interna alla scuderia, fino allo scontro fra il gran boss Christian Horner e papà Jos. Il primo era accusato di comportamento inappropriato nei confronti di una dipendente della squadra, il secondo ha cercato di cavalcare la storia per liberarsi di lui. Di fronte a questo vortice, Verstappen ha imparato a vivere le responsabilità delle sue dichiarazioni – una volta dalla parte di uno, una volta dalla parte dell’altro – e a vivere le conseguenze delle sue decisioni, come ha scoperto quando si è fatto vedere sotto al braccio di Toto Wolff, il capo della Mercedes, il miglior nemico della Red Bull. Un anno proseguito con l’addio della mente della scuderia, l’ingegnere Adrian Newey, e con la progressiva retrocessione nelle prestazioni della macchina. O c’era un problema ai freni o al sistema di raffreddamento. Quando la RB20 è diventata nelle sue parole «una macchina difficile da guidare», mentre il suo compagno di squadra Sergio Pérez affondava nelle retrovie, Max ha portato la sua macchina vulnerabile e imperfetta al titolo mondiale, contro una McLaren rinata e una Ferrari di nuovo affidabile.
Le prospettive
Ha di nuovo minacciato di lasciare a settembre («Smettere non è un problema») quando la federazione internazionale lo ha condannato ai servizi sociali, nel pieno di una battaglia intrapresa contro il linguaggio dei piloti in radio, con l’obiettivo di sradicare i fuck che si sentono a decine durante le corse e in conferenza stampa. Prima aprono i microfoni per sentire i piloti ovunque e sempre, poi li vogliono candidi come catechisti. Così, atterrato a Singapore, Verstappen ha deciso di fare la mummia, rispondendo solo a monosillabi in conferenza stampa.
È stato il momento in cui si è mostrato di nuovo primitivo come alle origini, sporco, selvatico. Quando il rivale Lando Norris ha tentato qualche sorpasso, nell’ultimo mese il pilota mezzo Mozart e mezzo Salieri si è mostrato di nuovo disposto a tutto per respingerlo, fosse un mind game oppure una sterzata feroce in curva. Ora che arriva una NextGen di piloti, a soli 27 anni stiamo per assegnargli il ruolo del veterano. E lui, come sempre, scapperà. Indomabile, imprendibile.
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