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Il ministro degli Interni Angelino Alfano è saltato dalla politica alla guida di una holding sanitaria. Il presidente Rosario Crocetta sverna sulle spiagge tunisine al riparo del fisco italiano. Il senatore Giuseppe Lumia c'è e non c'è come un'ombra.
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Mentre Calogero Montante ha obbligo di dimora ad Asti dove aveva una fabbrica di ammortizzatori il suo coimputato nel processo di Caltanissetta Renato Schifani – accusato di far parte di una catena di talpe – è diventato governatore della Sicilia.
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La continuità in Confindustria Sicilia è rappresentata da Alessandro Albanese, la star dei supermercati Massimo Romano ha allargato il suo regno, sparito l’ex presidente di Unioncamere Ivan Lo Bello.
Il presidente che era un pupo nelle sue mani sverna sempre in Tunisia. Sulle spiagge bianche di Mahdia Rosario Crocetta fa il pensionato, al riparo dal fisco italiano e nella vana speranza di farsi dimenticare dai siciliani per la sua disastrosa avventura di governo. Ivan Lo Bello, suo “gemello diverso” e socio, è scomparso dal giorno che la faccenda ha preso una piega giudiziaria molto aggressiva. Ai tempi d’oro presidente di Unioncamere, vicepresidente di Unicredit, vicepresidente di Confindustria, entrature di lusso in Vaticano, bandiera di una legalità attenta a ogni genere di affare, pare che stia male in salute e che viva fra Siracusa e Catania.
Rintanati e sparpagliati
Il ministro dell’Interno che lo incontrava anche quando era già sott’inchiesta per mafia – di più, quando uscì la notizia che era indagato gli rafforzò d’imperio la scorta – ha fatto un salto dalla politica alla guida del gruppo San Donato, holding sanitaria controllata dalla famiglia Rotelli. Qualche mese prima dello scandalo Angelino Alfano aveva annunciato che non si sarebbe più ricandidato, ex ministro anche degli Esteri e della Giustizia ha un record nella storia della Repubblica per i suoi 1.836 giorni consecutivi alla guida di un dicastero.
Quello che chiamavano “il senatore della stanza accanto” – si diceva che avesse un ufficio a palazzo d’Orléans attiguo allo studio di Crocetta e da lì lo comandava a bacchetta – partecipa immancabilmente a “giornate della memoria” e a “settimane del volontariato internazionale”. Ex presidente della commissione Antimafia e uno dei sostenitori della grande impostura della “rivoluzione” degli imprenditori isolani, Giuseppe Lumia c’è e non c’è. Un’ombra sempre presente.
Che fine hanno fatto gli amici del cavaliere Calogero Antonio Montante detto Antonello, vicepresidente della Confindustria guidata da Emma Marcegaglia e da Giorgio Squinzi, dopo il suo clamoroso arresto avvenuto nella primavera del 2018? Dove si sono rintanati o sparpagliati, dopo che quel siciliano trasformato in un fenomeno è stato condannato a otto anni di reclusione per associazione a delinquere?
Il nemico in casa
Intanto bisogna riconoscere che il “sistema Montante” non è mai morto ma, al contrario, ritoccato e perfezionato è sopravvissuto al suo fondatore. E, proprio grazie all’uscita di scena dell’ex cavaliere più giovane d’Italia nominato dal presidente Giorgio Napolitano, funziona meglio di prima. È rimasto in piedi senza di lui, che era troppo appariscente, prepotente, troppo avido, incontrollabile. Oggi ci viene il sospetto che, in qualche modo, se lo siano giocato in casa.
Tant’è che mentre Antonello ha l’obbligo di residenza ad Asti dove aveva una fabbrica di ammortizzatori per treni e camion (i giudici piemontesi hanno chiesto il suo rinvio a giudizio per «operazioni dolose» che hanno portato a una bancarotta «per distrazione e dissipazione» del patrimonio aziendale) uno dei suoi più occulti fan è diventato addirittura governatore della Sicilia.
Coimputato con l’ex vicepresidente di Confindustria a Caltanissetta nel processo che si celebra con rito ordinario Renato Schifani, più noto nelle carte dell’indagine Montante con il nome in codice di «professore Scaglione», è accusato di far parte di un catena di talpe che spiavano la procura della Repubblica per carpire informazioni segrete su Montante e su loro stessi. Uno ha passato anni a firmare il librone dei sorvegliati speciali, l’altro (grazie allo statuto speciale siciliano) ha acquistato il rango di ministro.
C’è chi sale e c’è chi scende nel giro dei fedelissimi del padrino dell’Antimafia, uno che è si è ritrovato faro della legalità in Italia pur avendo da ragazzo un posto “nel cuore” di un boss di Cosa nostra del suo paese, Serradifalco, in mezzo alle campagne di Caltanissetta.
Sicindustria come prima
E c’è poi chi è rimasto esattamente dov’era, senza avere mai avuto un guaio giudiziario. Come Alessandro Albanese, presidente di Confindustria nell’isola e presidente della Camera di Commercio di Palermo. Albanese rappresenta la continuità.
Nel 2018 era il numero tre nell’associazione degli industriali siciliani, numero due era il re della monnezza Giuseppe Catanzaro che si è dimesso quando è andato a processo con Montante e così Albanese è diventato il numero uno. Se il padrone di una delle più grandi discariche della Sicilia si è defilato aspettando giorni migliori, ha allargato il suo regno la star dei supermercati Massimo Romano, anche lui imputato con Montante, anche lui catapultato nella battaglia legalitaria nonostante avessero sequestrato qualche pizzino di troppo con il suo nome.
Tutti sul carro vincente dell’antimafia dell’inganno, un po’ per mischiare le carte e un po’ per accontentare prefetti e questori e magistrati a volte creduloni e a volte fortemente interessati ad avere amici ben addentro ai piani alti del potere. C’era una sorta di “governo verticale” (definizione della giudice che ha sentenziato contro la banda) che dominava in Sicilia e che estendeva la sua influenza nei ministeri romani, dentro gli apparati di sicurezza, nei partiti, nelle redazioni dei giornali.
L’“io” di Angelino
L’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, su suggerimento di Alfano, aveva designato il cavaliere Montante all’Agenzia dei beni confiscati. Un vero colpo di genio, viste le antiche amicizie del siciliano di Serradifalco. Dei suoi rapporti con Alfano c’è una battuta, pronunciata da un ufficiale della Guardia di finanza, che è una felice sintesi sulla natura del loro legame: «Antonello ad Angelino non ci dà del tu, ci dà dell’gio».
Ma dietro i personaggi più noti citati nell’inchiesta o pesantemente coinvolti c’è tutto un popolo, una corte che si è prudentemente imboscata o riaffacciata in pubblico. In quest’ultimo elenco Angelo Cuva, tributarista di fama, relazioni con gli alti comandi di Finanza e Arma, presunta talpa dell’indagine Montante insieme al «professore Scaglione». Il tributarista, un paio di mesi fa, è stato “quasi“ indicato dal sindaco di Palermo Roberto Lagalla a capo della cabina di regia per vigilare sui fondi del Pnrr. Un mandato durato poche ore, il sindaco si è accorto che l’aveva fatta grossa e ha parlato di malinteso. Ci hanno provato.
Fra i dispersi della formidabile “squadra antimafia” del cavaliere di Serradifalco l’ex assessora regionale alle Attività produttive Linda Vancheri, un’altra imputata dell’associazione a delinquere Montante che ha mantenuto un incarico in Confindustria e ogni tanto viene avvistata ad Asti.
Inabissati in attesa di giudizio Carlo La Rotonda, direttore generale di Rete imprese di Confindustria; il costruttore di Gela Carmelo Turco; l’ex capo della security di viale dell’Astronomia Diego Di Simone. Il loro processo va al ralenti fin dall’apertura del procedimento, dopo la riunificazione fra due spezzoni d’inchiesta il rischio di una prescrizione di massa è diventato molto reale. Una delle indagini più delicate degli ultimi anni sul potere infetto italiano si sta smarrendo nelle aule del tribunale di Caltanissetta: è la giustizia che si strangola con le sue stesse mani.
La scelta scellerata
Scellerata, con il senno del poi, la scelta dell’attore principale dell’affaire che ha preferito affrontare il processo con rito abbreviato incassando due verdetti di condanna. Se avesse optato per l’ordinario, Calogero Antonio Montante detto Antonello ora sarebbe ancora a spadroneggiare fra la Sicilia e Roma, a riempire di dossier la famigerata stanza segreta della sua villa, a spiare nemici a destra e a manca.
Fra supestiti e pentiti e riciclati, tutti adoratori di Montante, ci sono anche un bel po’ di magistrati. Ex presidenti di corte di appello, procuratori della Repubblica, procuratori generali. Moltissimi di loro, esperti di Cosa nostra, non avevano percepito la pericolosità dell’uomo e dell’organismo criminale che rappresentava, una “mafia trasparente” che si era radicata nella carne viva dello stato. Oggi gli adoratori in toga fanno finta di niente. Come si dice in Sicilia, l’acqua li bagna e il vento li asciuga.
Una vicenda soffocata nel silenzio, qualche titolo sui quotidiani locali, ogni tanto la notizia di un’altra indagine chiusa, di un nuovo rinvio a giudizio, di una nuova richiesta di sequestro di beni.
Il pezzo difettoso
Ma un “caso Montante” c’è mai stato? La voglia di dimenticare è tanta. E forse aveva ragione lui quando, già sotto indagine per mafia ma per nulla preoccupato, cercava di rassicurare il suo amico Giuseppe Catanzaro che invece era agitatissimo: «Non conoscono il nostro sistema, di architettura perfetto. Ricordatelo perché, Peppe, è fatto a disegno preciso: è l’architettura di come si agisce dentro la politica, dentro certe istituzioni». L’architettura perfetta non prevedeva solo l’uomo che “il sistema Montante” l’aveva inventato: Montante stesso, un pezzo difettoso.
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