Da richiedente asilo gli è stato notificato un decreto di espulsione e per questo portato al centro per il rimpatrio. Arrestato per le proteste dopo la morte di Ousmane Sylla, è stato a Regina Coeli per mesi. Ma la sua patologia è incompatibile con la detenzione. Un caso che rivela la mancanza di comunicazione tra istituzioni e l’approssimazione delle autorità
Ha assistito a un suicidio nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Roma Ponte Galeria, ha visto altre sei persone provare a togliersi la vita ed è stato arrestato per aver protestato contro le condizioni della struttura di detenzione amministrativa. Sono gli ultimi tre mesi di John, un ragazzo di origine pakistana di 26 anni, al quale attribuiamo un nome di fantasia per tutelarne l’identità. Ma bisogna partire dall’inizio per ricostruire questa storia di ingiusta privazione della libertà, gravi violazioni e mancata comunicazione tra le istituzioni, che ha portato John da un luogo di detenzione a un altro, prima al Cpr poi in custodia cautelare a Regina Coeli, e poi, di nuovo, nel Cpr, pur essendo incompatibile con le strutture detentive.
Il Cpr è un luogo in cui le persone sono recluse – fino a un massimo di 18 mesi, come voluto dal decreto Piantedosi – anche solo per non avere il permesso di soggiorno.
John è entrato per la prima volta nel Cpr di Roma pochi giorni prima del suicidio di Ousmane Sylla, il ragazzo 22enne guineano, che ha deciso di togliersi la vita con un lenzuolo, per «riposare in pace», aveva scritto in francese sul muro del centro. «Se morissi vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta. I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro. L’Africa mi manca molto e anche mia madre, non deve piangere per me», continuava il messaggio.
Incompatibilità
Dopo quell’atto tragico, la 14esima morte nel sistema Cpr in 5 anni, la protesta dei trattenuti a Ponte Galeria è finita con l’intervento delle forze dell’ordine, 14 persone sono state arrestate con le accuse di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, danneggiamento e incendio doloso. Tra queste c’era proprio John, finito nel carcere di Regina Coeli, ma la sua condizione è incompatibile con la detenzione.
Una perizia psichiatrica ha infatti diagnosticato al ragazzo un disturbo psicotico NAS che, «come tutti i disturbi psicotici», scrive l’esperta del tribunale, «si caratterizza da una scarsa aderenza al piano di realtà con episodi, più o meno ricorrenti, di acuzie a carattere delirante». Una patologia che rende, si legge, «il soggetto scarsamente compatibile con strutture detentive in senso assoluto». John ha piuttosto bisogno, scrive l’esperta, «di una presa in carico dei servizi territoriali».
Non solo, al momento del fatto il ragazzo 26enne «versava in uno stato di mente tale da escludere totalmente la capacità di intendere e di volere», conclude la perizia, che esclude inoltre la sua pericolosità. L’avvocata del ragazzo, Paola Bevere, ha quindi chiesto al pm il proscioglimento.
Ma se è stata dichiarata l’incompatibilità per ragioni psichiatriche con il regime penitenziario, sottolinea l’avvocata, «dove, al contrario che in Cpr, esiste un piano antisuicidario e l’assistenza sanitaria è garantita dal Sistema Sanitario nazionale, non si sa come possa poi essere stato condotto in Cpr il richiedente asilo».
Perché il regolamento ministeriale che disciplina le strutture come Ponte Galeria dice chiaramente che alla persona che accede al Cpr deve essere garantita una visita medica per «accertare l’assenza di patologie evidenti che rendono incompatibile l’ingresso e la permanenza del medesimo nella struttura». Tra queste, malattie infettive e pericolose per la comunità, ma anche disturbi psichiatrici, patologie acute o cronico degenerative che non possono ricevere le cure adeguate in comunità ristrette. E il Cpr di Ponte Galeria, come tutte le strutture di questo tipo presenti in Italia, non assicura assistenza psichiatrica né ha un piano antisuicidario.
Si aggiungono, come emerso da molte inchieste e relazioni del garante nazionale per le persone private della libertà, pessime condizioni igienico-sanitarie, una carenza cronica dell’assistenza sanitaria, abuso di psicofarmaci, un aumento delle problematiche relative alla salute mentale per chi è rinchiuso dietro le alte sbarre dei Cpr. Ne consegue un alto tasso di tentativi di suicidio e di atti di autolesionismo. Dopo la morte di Sylla, sei persone hanno provato a togliersi la vita in sette giorni.
Secondo giro
John non doveva essere portato al Cpr fin dall’inizio, non solo per il disturbo psichiatrico ma anche perché in quel momento era richiedente asilo. Per le autorità non era irregolare e «ci si chiede perché la questura abbia emesso l’espulsione quando aveva in corso una richiesta di asilo», precisa Bevere.
«A mio parere la vicenda di quest’uomo tradisce e svela le reali intenzioni, il vero scopo, dei Cpr. Cioè allontanare e rinchiudere gli indesiderabili», dice la garante del Comune di Roma, Valentina Calderone. E conclude: «Spesso sono persone con disagio mentale, che non vengono seguite dai servizi e sono relegate alla più totale invisibilità, fino a quando non finisco in posti come Ponte Galeria».
E infatti, lo stesso giudice per le indagini preliminari, sulla base della perizia, ha revocato la misura della custodia cautelare e disposto che «la direzione sanitaria dell’istituto penitenziario si attivi per assicurare la presa in carico», ribadendo che non è un soggetto socialmente pericoloso.
Peccato che, «dopo una detenzione di tre mesi la questura abbia disposto nuovamente il trattenimento nel Cpr, nonostante una perizia psichiatrica evidenziasse che questa persona non è socialmente pericolosa ma anzi necessiterebbe di una presa in carico da parte dei servizi territoriali», spiega Rita Vitale, coordinatrice degli sportelli legali di A Buon Diritto, a cui si è rivolto il fratello di John.
E, quindi, invece di assicurargli assistenza sanitaria per le gravi patologie psichiatriche, come chiesto dal giudice, il ragazzo viene definito socialmente pericoloso e portato, di nuovo, al Cpr, perché nel frattempo gli è stata rigettata la richiesta di asilo. La visita medica nel centro si è poi limitata a stabilire l’assenza di malattie contagiose. Non è un pericolo per la comunità, ma nessuno – nonostante la perizia e la decisione del gip – ha verificato se quella condizione ristretta fosse o meno pericolosa per lui. Per la seconda volta.
Nessuna diligenza
Di fronte a una decisione così invasiva come quella di privare della libertà una persona, ci si aspetterebbe una comunicazione tra i vari uffici dell’amministrazione. Non solo la questura non ha rispettato l’ordinanza del giudice, ma la richiesta di asilo di John è stata rigettata perché irreperibile. Il ragazzo però era in carcere ed «era facilmente rintracciabile con una richiesta al Dap come si fa quando una persona è irreperibile», spiega a Domani Bevere, «è allarmante una tale mancanza di comunicazione tra due istituzioni, il ministero della Giustizia e dell’Interno».
Il giudice civile, anche grazie al lavoro degli avvocati Paola Bevere e Gennaro Santoro, non ha convalidato il trattenimento e ha chiesto che, nonostante il decreto di espulsione, venga preso in carico dal Centro di salute mentale. John ora è libero e può fare ricorso per la sua richiesta di protezione internazionale.
«Una storia gravissima e inaccettabile», commenta A Buon Diritto, sottolineando che «sono molti gli elementi problematici e inquietanti che si intrecciano e continuiamo a chiedere la fine dell’utilizzo spregiudicato di uno strumento inutilmente afflittivo e criminalizzante come quello del trattenimento».
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