Ai Giochi di Tokyo di tre anni fa l'orco si chiamava Laurel Hubbard. Arrivarono al palazzetto microfoni e telecamere come per un vertice del G-20. Una donna alta, bianchissima di carnagione, grossa. Portava i capelli in una crocchia e si copriva la testa con una visiera. Una donna timida, impaurita dal casino che i giornali facevano da qualche settimana nel raccontare con il solito tono sospeso tra malizia, becero e spiritosaggine che lei era nata uomo, Gavin si chiamava, era il figlio del sindaco di Auckland, e dopo un'adolescenza confusa aveva scoperto nel sollevamento pesi uno spazio di benessere.

Il circo del cicaleccio aveva deciso che Laurel avrebbe ammazzato la gara, figuriamoci, un uomo sotto mentite spoglie tra le donne, c'era pure chi nei pezzi lo chiamava Gavin. «Quanti uomini in futuro cambieranno genere per rubare il podio a noi donne?» disse Anna Vanbellinghen, una delle avversarie. Invece Laurel fece tre nulli, non riuscì mai a sollevare il bilanciere, fu eliminata al primo colpo e se ne tornò a casa felice. Dimenticatemi, disse.

L'orco di Parigi si chiama Imane Khelif, pugile, algerina, l’avversaria della napoletana Angela Carini che dinanzi a lei si è ritirata dopo 46 secondi di match, al primo pugno preso in faccia quando neppure si stava difendendo come avrebbe dovuto. Basta, si è ritirata. Per due giorni aveva sentito dire intorno a sé che avrebbe affrontato un maschio, detto proprio così, un maschio.

Khelif è stata scaraventata con violenza sulla scena dai giornali del pensiero di destra come un’atleta  transgender, accettata come tale dal baraccone intero della disinformazione che si è accodato con poche verifiche per non perdere le migliori postazioni seo. Solo più tardi la povera Khelif è stata rivenduta nel medesimo circuito come intersex, vittima di “una malattia", addirittura.

La valanga era partita, nessuno si è lasciato sfiorare dall'idea che non sappiamo tutto, qualche volta non sappiamo niente. Ma un'etichetta prestampata va sempre bene per farci 50 righe al volo e andare a cena, che sarà mai la dignità di una persona.

Chi è lei

Le poche cose accertate sul conto di Imane Khelif sono che non ha affrontato alcun percorso di cambiamento di genere. Ha iniziato a praticare la boxe dopo aver visto i Giochi di Rio. Doveva farsi 10 km in autobus dal suo villaggio fino alla palestra più vicina. Per pagare il biglietto vendeva rottami metallici da riciclare, sua madre vendeva cous cous.

Sappiamo pure che era ai Giochi di Tokyo del 2021 e uscì ai quarti di finale senza nessuno scalpore. Due anni fa aveva già affrontato un’avversaria italiana, Assunta Canfora, e non una mosca era volata. Così vanno del resto le cose alle Olimpiadi, nascono in modo solenne come una grande festa dello sport e finiscono dentro un tritacarne di scandali, allarmi terroristici, giravolte di ministri, visite di presidenti del consiglio, ciascuno portatore del proprio interesse.

Giorgia Meloni ha fatto in modo di trovarsi al posto giusto nel momento giusto, in tempo per far sapere «che atleti che hanno caratteristiche genetiche maschili non debbono essere ammessi alle gare femminili e non per discriminare qualcuno ma per tutelare il diritto delle atlete a competere ad armi pari».

Il testosterone

Il caso di Khelif è simile a quello di Caster Semenya, la sudafricana oro mondiale e olimpico nel mezzofondo. Quando cominciò a vincere, su di lei si accese una luce. Elisa Cusma, italiana, disse senza vergogna: «È un maschio».

Così cominciarono le restrizioni della federazione internazionale. World Athletics considerò che oltre il 99% delle donne ha valori di testosterone compresi tra 0,12 e 1,79 nanomoli per litro, stabilendo che le atlete DSD (disorders/differences of sex development, atlete con disordine o differenza dello sviluppo sessuale), erano quelle con un livello di testosterone nell’intervallo di 7,7-29,4 nanomoli per litro di sangue.

Fu abbassato allora a 5 il tetto per la loro partecipazione, poi vennero escluse con qualunque valore dalle gare fra 400 metri e 1.500. Semenya tentò i 5.000 senza fortuna, Christine Mboma si convertì ai 200 e il suo argento olimpico fece venire la voglia di ulteriori restrizioni, perché la parola inclusione sta bene negli slogan, se sale sul podio fa paura, come sanno per altre vie e per altri pregiudizi le atlete transgender, fuori per un atto ideologico e politico: escluse pure dagli scacchi.

Il mistero del corpo

Ci sono corpi che il mondo dello sport non sa leggere, non sa capire, se ne lascia spaventare come Angela Carini al primo pugno su un ring. Eppure, da molti punti nel mondo della scienza viene l’indicazione che non è solo il testosterone a rendere le prestazioni migliori. Jonathan Ospina, ricercatore in Scienze Motorie e professore all’Università di Valladolid, ha detto a El País che «non siamo in grado di determinare la memoria muscolare e gli effetti del testosterone sul lungo periodo di tempo. La causa fondamentale è che parliamo di un campione di persone ridotto, con rapporti molto complessi con il resto della società».

Un campione ridotto. Verissimo. Quando agli ultimi Mondiali di nuoto la federazione introdusse una terza categoria detta Open per accogliere quei corpi messi al bando, le iscrizioni furono: zero.

María José Martínez Patiño è un’atleta spagnola esclusa dalle competizioni a causa della sua condizione DSD. Il suo corpo produce più testosterone rispetto alle altre atlete. Attualmente è ricercatrice presso l’Università di Vigo. Dice: «Non esiste una soluzione chiara, ma è chiaro che non si può legiferare sulla sessualità senza tenere conto del fatto che si scontra con qualcosa di importante per la società come lo sport».

Sulla scorta dei suoi studi, Martínez Patiño non mette l’accento sui benefici e gli effetti permanenti del testosterone, ma parla di «capacità acquisite in precedenza».

La politica

Quando Giorgia Meloni crede allora di essere nel giusto invocando competizioni «ad armi pari», dice una cosa di cui lo sport non si occupa. Non può. Le armi pari con i corpi non esistono.

Michael Phelps aveva un’apertura alare di 2,03 metri. Detiene il maggior numero di medaglie nella storia delle Olimpiadi con 23 ori. Aveva un vantaggio? Sì. Chi stabilisce se era iniquo?

Victor Wembanyama, l’ultima stella del basket francese, è alto 2 metri e 25 e ha un’apertura alare di due metri e mezzo. Ha un vantaggio? In certe situazioni sì. Nei giorni scorsi è stato fotografato alle Olimpiadi mentre incrociava i passi del giapponese Yuki Togashi, alto 1 meto e 67. Non sono certo «armi pari».

Così come non aveva «armi pari» ai suoi avversari il ciclista spagnolo Miguel Indurain, 8 litri di capacità polmonare senza che fosse intervenuto sul corpo ricevuto alla nascita. Come Caster Semenya nell’atletica, come Imane Khelif nella boxe. Eppure nessuno ha mai pensato di escludere Indurain, Phelps, Wembanyama. Lo sport è fatto di regole non di «armi pari» e Khelifi, per quanto se ne sa, non è fuori dalla regole.

Aver identificato Khelif come un’atleta transgender è una sorta di impronta digitale su questa storia. È la traccia di un’intenzionalità politica in linea con la normativa che ostacola la pratica sportiva delle persone che affrontano un percorso di transizione di genere, non solo al vertice, non solo alle Olimpiadi, ma anche alle base, a scuola, come accade negli stati americani a guida repubblicana. Per Angela Carini si è mobilitato con un hashtag Elon Musk. Servono altre prove?

È una storia gigantesca e complessa, che ciascuno secondo il proprio ruolo avrebbe il dovere di affrontare con responsabilità, un vocabolario adatto, la propensione al dubbio. Pur di cavalcarla, La Russa è stato disposto a rinnegare la storica inclinazione della sua parte a far coincidere l’onore col coraggio: brava Carini a ritirarsi, ha detto. Solo che la poliziotta poteva almeno salutare l’avversaria. Sarà ricevuta al Senato, magari sarà candidata a qualcosa e dopo puff, nulla sarà stato utile a qualcuno. Né a Khelif, né allo sport.

© Riproduzione riservata