Viene dal Darfur, in Sudan, e Amal non è il suo vero nome. Ha 30 anni e da sei è bloccato in Libia: l’ultima volta che ha provato ad attraversare il mare è stato riportato a Tripoli da un mercantile italiano, l’Asso 29. Un respingimento collettivo per cui a giugno il tribunale civile di Roma ha giudicato colpevoli i ministeri di Difesa e Trasporti, la presidenza del Consiglio, il capitano e l’armatore della nave della Augusta Offshore. Ora un’altra sentenza del tribunale di Roma ordina al governo di rilasciare un visto ad Amal. Deve arrivare «immediatamente» in Italia, per poter chiedere la protezione internazionale.

Una decisione che ancora una volta smantella l’impalcatura che ha permesso nel tempo all’Italia (e all’Europa) di impedire l’arrivo delle persone migranti da un paese che per il diritto internazionale (e per i tribunali italiani) non è un luogo sicuro.

Oggi Amal, in fuga da quasi dieci anni, vive nascosto: la probabilità di finire di nuovo in un centro di detenzione libico è altissima. Allo scoppio della guerra in Sudan viene evacuato in un campo profughi con la sua famiglia. Vuole arrivare in Europa, in Libia arriva nel 2016: ad accoglierlo, venduto dai trafficanti, ci sono i «trattamenti inumani e degradanti» più volte denunciati dalle organizzazioni internazionali e dalle Nazioni Unite. Prova ad arrivare in Italia ma viene catturato: riesce a liberarsi dalla prigione e dalle torture dopo circa tre mesi, pagando un riscatto. In Sudan nel frattempo la sua famiglia continua a spostarsi, nell’insicurezza e nella povertà più estrema, sfollata.

L’odissea di Amal

Amal deve arrivare in Italia anche per loro. Ci riprova allora ad attraversare il Mediterraneo centrale. È una delle oltre 150 persone a bordo di un gommone che parte dalle coste di Al Khums la notte del 30 giugno 2018. L’imbarcazione affonda, interviene una motovedetta libica, la Zuwarah, che salva 18 persone, c’è anche Amal. La motovedetta prosegue con quelle che nella sentenza vengono definite «ulteriori operazioni Sar», di soccorso in mare. Prende a bordo altre persone, forse troppe. E va in panne.

È il mercantile Asso 29, coordinato dalla nave militare italiana Caio Duilio, a intervenire il 2 luglio in soccorso dei libici. La nave italiana è appena salpata, in navigazione verso la piattaforma petrolifera Bouri: sotto il coordinamento italiano e libico raggiunge la Zuwarah, prende a bordo 150 persone e le riporta a Tripoli.

L’incubo di Amal ricomincia nel centro di detenzione di Tariq al Matar: violenze, abusi e lavori forzati. Riesce a scappare, viene registrato dall’Unhcr come «person of concern», ma vive «nascosto nei dintorni di Tripoli nella costante paura di essere arrestato»: neanche chi è in possesso di un tesserino Unhcr è al sicuro.

La sentenza di merito del Tribunale civile di Roma «stabilisce il diritto di Amal di entrare in Italia con un regolare visto di ingresso, a fronte della violazione degli obblighi di non-refoulement in capo all’Italia, per il riconoscimento del diritto alla protezione internazionale», spiega Loredana Leo, avvocata Asgi che insieme alle colleghe Cristina Laura Cecchini e Giulia Crescini ha seguito il caso.

Secondo la giudice Silvia Albano «le autorità italiane che hanno prestato ausilio e il comandante della nave commerciale italiana inviata sul posto avrebbero dovuto comunque garantire che i naufraghi venissero sbarcati in un luogo sicuro, a prescindere dalla presenza di un ufficiale libico sulla nave e dal fatto che la richiesta di soccorso fosse venuta dalle autorità libiche».

Diritti calpestati

I naufraghi sono saliti a bordo di una nave battente bandiera italiana in acque internazionali e «le autorità hanno violato l’obbligo di adottare misure per prevenire atti di tortura e trattamenti inumani». L’Italia «avrebbe dovuto non offrire ausilio alla guardia costiera libica per sbarcare i naufraghi in Libia, ma assicurare il loro trasporto in un luogo sicuro, nel momento in cui erano su una nave sottoposta alla sua giurisdizione».

Ora l’ambasciata italiana a Tripoli dovrà rilasciare ad Amal un visto che gli permetta di fare ingresso in Italia e richiedere protezione internazionale. «Immediatamente», si legge. «Ci aspettiamo che il governo faccia ricorso, e in ogni caso i tempi saranno ancora lunghi», spiega il team di legali, «ma è una sentenza importante: qualifica una volta di più come illegittime le condotte delle autorità italiane nei respingimenti verso la Libia dove, ad oggi, si trovano ancora molte persone respinte presenti sulla Asso 29. In grave pericolo».

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