Nel confronto tra le immagini riprese da Seabird e quelle della guardia costiera si notano la stessa forma e colore della barca in legno naufragata a largo di Lampedusa e il simile abbigliamento di alcuni sopravvissuti. Anche il numero di persone a bordo, il volto di un uomo e il porto di partenza potrebbero combaciare: «Se fosse confermato saremmo di fronte a un grave caso di omissione di soccorso», dice l’ong
Una barca simile a quella naufragata il 4 settembre a 10 miglia da Lampedusa era stata segnalata in difficoltà alle autorità italiane e maltesi due giorni prima da Seabird, l’aereo da ricognizione di Sea-Watch, ma senza che nessuno intervenisse. «Se questa corrispondenza fosse confermata - dice l’ong - saremmo di fronte a un grave caso di omissione di soccorso».
Ventuno delle persone che erano a bordo sono tuttora disperse. La guardia costiera sta conducendo le ricerche via mare e via aerea e ha allertato i centri di soccorso libico, maltese e tunisino.
Le immagini
Nel confronto tra le immagini riprese dagli operatori a bordo di Seabird e quelle diffuse dalla guardia costiera italiana si possono osservare la stessa forma della barca in legno, in entrambi i casi di colore bianco, simile abbigliamento di alcuni sopravvissuti e il volto di un uomo a bordo che potrebbe combaciare. Anche il numero delle persone trasportate e il porto libico di partenza, nella città di Sabratha, corrisponderebbero ai dettagli inviati alle autorità da Alarm Phone per segnalare lo stesso avvistamento avvenuto da parte di Sea-Watch.
Secondo le ricostruzioni, l’imbarcazione era stata avvistata da Seabird il 2 settembre, a mezzogiorno, a 37 miglia nautiche da Lampedusa, con circa 30 persone a bordo. Meret Wegler, coordinatore tattico dell’operazione, ha comunicato che «il suo galleggiamento era bassissimo e la situazione instabile». La barca, inoltre, navigava con un solo motore.
Il 4 settembre la guardia costiera italiana ha soccorso un’imbarcazione alla deriva, ormai semisommersa e in procinto di affondare, con 7 migranti a bordo, tutti uomini e di nazionalità siriana. Una volta portati in salvo, hanno dichiarato ai guardacoste di essere partiti il 1° settembre dalla Libia in 28, tra cui tre minori. Ventuno di loro, durante la navigazione, sarebbero caduti in mare a causa delle onde.
«Non possiamo stabilire al cento per cento che il barchino su cui viaggiavano fosse lo stesso che è naufragato, ma ci sono diversi elementi che suggeriscono che molto verosimilmente potrebbe essere così - dice Giorgia Linardi, portavoce di Sea-Watch -. Rispetto a dove lo avevamo individuato, il barchino è stato ritrovato naufragato poche miglia dopo, che è una distanza plausibile da percorrere in due giorni, anche solo per lo strascico delle correnti».
I fermi amministrativi
Ora l’indagine aperta dalla procura dovrà verificare l’accaduto, le responsabilità legate al naufragio e se c’è stata una violazione della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, che obbliga tutte le nazioni a prestare assistenza alle persone in pericolo senza ritardi. «Ci auguriamo che si vada a indagare a fondo su quello che potrebbe essere un altro caso di omissione di soccorso istituzionalizzata. Se così non fosse saremmo ovviamente sollevati, ma ciò che è paradossale è che nel frattempo le navi delle ong vengono detenute, mentre sicuramente quelle stesse navi sarebbero accorse immediatamente sul posto in caso di emergenza» aggiunge Linardi.
Nelle ultime settimane, sono almeno due i fermi amministrativi disposti dalla guardia costiera italiana nei confronti delle navi che compiono i salvataggi in mare. La nave Sea Watch 5 lo ha ricevuto il 4 settembre, pochi giorni dopo aver raggiunto Civitavecchia portando in salvo 289 persone, e dovrà rimanere ferma in porto fino a fine mese. L’accusa è di aver soccorso i naufraghi senza aver prima ricevuto il permesso da parte delle autorità libiche.
Per la nave di Medici Senza Frontiere, Geo Barents, la durata della detenzione amministrativa ammonta a 60 giorni ed è stata imposta il 23 agosto a seguito di cinque operazioni di salvataggio. L’accusa questa volta è di non aver fornito informazioni tempestive al Centro di coordinamento del soccorso marittimo italiano nel corso della terza missione e di aver messo in pericolo la vita delle persone che sono state soccorse.
Dopo aver portato in salvo a Lampedusa 182 naufraghi, il 3 settembre, la nave Mare Jonio dell’ong Mediterranea Saving Humans è stata poi diffidata «dal continuare a intraprendere ogni attività preordinata alla effettuazione sistematica del servizio di ricerca e soccorso in mare» per la mancanza della «relativa certificazione di idoneità».
Alarm Phone, Mediterranea Saving Humans, Sea-Watch e altre ong negli anni hanno più volte denunciato la mancanza di risposte a seguito delle segnalazioni lanciate alle autorità dopo l’avvistamento di imbarcazioni a rischio nel Mediterraneo. Luca Marelli, uno dei coordinatori delle operazioni di Seabird, conferma che anche in quest’ultimo caso le autorità italiane non hanno dato riscontro: «Di base il centro di coordinamento dei soccorsi di Roma non rilascia praticamente mai informazioni alle ong rispetto alle operazioni in cui sono coinvolti».
Alla richiesta di Domani di offrire chiarimenti sulle accuse mosse da Sea-Watch, la guardia costiera non ha finora dato risposta.
«Tra il comando generale delle capitanerie di porto e le ong esisteva un coordinamento fino al 2018 ed era assolutamente utile perché consentiva una copertura sul soccorso in mare decisamente più ampia e finalizzata al salvataggio della vita umana. Questo purtroppo nel tempo è venuto meno, con norme che limitano le ong e che più di recente hanno castigato la guardia costiera, perché il governo ritiene che il fenomeno migratorio vada anzitutto affrontato con un’attività di polizia» spiega Vittorio Alessandro, ammiraglio in congedo della delle Capitanerie di porto.
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