La boxe olimpica è sull’orlo del burrone. Troppi gli intrecci politici ed economici che la stanno buttando giù. Il torneo di Parigi è il traguardo di uno slalom per bypassare la potenza della federazione internazionale ancora in mano al russo Umar Kremlev, putiniano ad alta fedeltà e nemico giurato del Cio che l’accusa di mancanza di trasparenza e opacità nella gestione delle risorse, protetto dall’ombrello dei soldi del super sponsor Gazprom.

Inevitabile che tutto questo produca una nuvola di incertezza sui verdetti dell’Olimpiade, come quello che ha tolto di mezzo Abbes Mouhiidine, il pugile azzurro più quotato, vice campione del mondo, superato dall’uzbeko Lazizbek Mullojonov, con una decisione dei giudici che Flavio D’Ambrosi, ex arbitro e presidente della Federboxe italiana, ha commentato in modo lapidario: «Vergognatevi».

Al tutto si aggiunge una sorta di smarrimento tecnico della disciplina nel suo format dilettantistico olimpico, condizionato da una filosofia “numerica” nell’interpretazione del match, in cui il numero dei colpi pesa più della loro incisività. Sullo sfondo, un potenziale e tutt’altro che impossibile epilogo della querelle: per il Cio, in questo momento il pugilato è fuori dal 2028. E pure per gli organizzatori di Los Angeles. Anche se riesce difficile credere che gli Stati Uniti rinuncino senza colpo ferire a uno sport così dentro la loro tradizione.

Lo scontro fra istituzioni

Non è certo la prima volta che un verdetto del pugilato olimpico scatena polemiche. I casi più clamorosi furono quelli di Seul 1988, la famosa sconfitta scandalo nei superwelter di Roy Jones jr. con il sudcoreano Park Si-Hun, che nei quarti aveva avuto ragione di Vincenzo Nardiello con un’altra contestata decisione.

Esiti che hanno ispirato pure un personaggio letterario nato dalla fantasia di Paolo Foschi, il commissario Attila, l’originale capo della sezione “crimini sportivi” che porta addosso ancora le ferite di una medaglia scippata dal volere dei giudici. Qui, però, c’è una crisi di sistema.

Anni di corpo a corpo fra l’Iba (la sigla della federazione internazionale) e il Cio hanno portato a una profonda crisi diplomatico-sportiva. Alimentata prima dal vecchio presidente internazionale, l’uzbeko Gafur Rakhimov, e, dal 2020, dal suo successore russo Kremlev. Che ha promesso soldi a palate per frenare qualsiasi emorragia in direzione di un’alternativa organizzativa credibile.

Il Cio ha tenuto il punto grazie a una task force, la Pbu, incaricata di gestire i tornei di qualificazione. E di scegliere i giudici, con una sorta di bando aperto a quelli dell’Iba. Nel frattempo, ha già dato l’alt: è l’ultima acrobazia, a Los Angeles o ci sarà una nuova federazione internazionale oppure niente boxe.

La federazione alternativa

Una nuova federazione internazionale forte, credibile e trasparente non c’è. C’è un tentativo, questo sì. Si chiama World Boxing. Al suo vertice c’è l’olandese Boris Van der Vost, che aveva provato a fare l’anti Kremlev per venire stoppato dal funzionario russo con l’alibi di una presunta incompatibilità.

Per ora, i paesi che hanno aderito sono 37, l’Italia è arrivata proprio da pochi giorni e qualcuno ha visto nello sfogo del presidente federale la frustrazione di chi si è sentito tradito: ma come, scegliamo la strada indicata dal Cio e poi non ci tutelate? I giudici, però, hanno estrazioni, storie e provenienze geografiche diverse. E poi non è detto che sia proprio questa World Boxing la soluzione che consenta al Cio di traghettare il movimento del pugilato internazionale.

In ogni caso per il riconoscimento ufficiale ci vogliono almeno 50 federazioni nazionali provenienti da almeno tre continenti. Una prima mossa per riaprire la sfida della sopravvivenza della disciplina nel programma olimpico di Los Angeles. Nel frattempo, l’Iba continua a organizzare campionati ed eventi. L’affiliazione a World Boxing non comporta l’uscita dalla federazione internazionale, ma è chiaro che prima o poi si arriverà a un “o voi o loro”. Con la federazione filorussa che progetta pure la creazione di una sorta di nuova area professionistica che inglobi anche i migliori esponenti potenzialmente olimpici: niente Giochi, ma tanti soldi.

Insomma, un rompicapo pazzesco. Certo, si fa fatica all’idea di cancellare uno sport che fa parte ininterrottamente del cartellone olimpico dal 1904. Ma la corda sta per spezzarsi. Né si può immaginare che il percorso giudiziario sportivo possa risolvere il problema. Per ora il Tas di Losanna ha dato ragione al Cio e torto alla federazione internazionale, che si è appellata alla Corte federale svizzera (ultima tappa dell’iter).

La partita, però, si gioca su molti altri tavoli. Nella città invisibile dei Giochi il quartiere della boxe è affollato di strade intitolate a campioni mitici: Laszlo Papp, Nino Benvenuti, Muhammad Ali (quando vinse a Roma si chiamava ancora Cassius Clay), Joe Frazier, George Foreman, Sugar Ray Leonard, Teofilo Stevenson. Ora, però, stiamo correndo verso il cartello “strada senza uscita”. C’è qualche mese di tempo, non di più, per riuscire a fare marcia indietro.

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